Il potere dell’autobiografia

Il nuovo lavoro di Florence + The Machine offre uno sguardo struggente sulla storia della frontwoman Florence Welch
/ 13.08.2018
di Benedicta Froelich

Per quanto la scena internazionale degli ultimi anni non abbia certo lesinato interpreti femminili di spessore, molti aficionados del «classic rock» sono a lungo stati inclini ad affermare che fosse difficile ritrovare, sui palchi odierni, moderne «vestali del rock» in grado di competere con i grandi nomi degli anni 60-70; ovvero, personaggi dal carisma così dirompente da influenzare, oltre alla musica, anche le arti visive, e perfino lo stile performativo, della loro intera generazione. Eppure, sarebbe difficile negare questo ragguardevole ruolo alla 32enne britannica Florence Welch, leader della formazione che porta il suo nome – Florence + the Machine, per l’appunto – e dotata di una personalità artistica ben più inafferrabile (nonché difficile da classificare) di quella delle sue contemporanee. Ottima vocalist e intrigante compositrice, la diafana e malinconica londinese sembra infatti essersi materializzata direttamente da un romanzo di Mary Shelley o un quadro di Dante Gabriel Rossetti, come i lunghi capelli ramati, gli abiti alla Emily Dickinson e l’acuminata magrezza suggeriscono; caratteristiche valorizzate dai surreali e ipnotici esperimenti cinematografici che da sempre distinguono i videoclip di Florence + the Machine – e che costituiscono parte integrante della promozione anche per questo nuovo disco, il quarto lavoro della formazione, dallo speranzoso titolo di High As Hope

E come dimostrano già i primi due singoli estratti dall’album – i destabilizzanti e laceranti Sky Full of Song e Hunger, a metà strada tra autobiografia e aneliti psicoanalitici – la «video art» di Florence brilla qui con rinnovato splendore, ammantandosi anche di velleità coreografiche: si veda la performance di danza concepita per Big God, ballata struggente e disperata sulla frustrante sensazione di «slittamento» esistenziale che chiunque abbia mai sperimentato il dolore psichico conosce bene: «a volte penso che le cose stiano migliorando / e poi invece vanno ancora peggio… fa tutto parte dell’evoluzione?». 

Sullo stesso piano anche le strazianti liriche del già citato Sky Full of Song, in cui la cantante sembra davvero urlare al mondo tutta la propria passata ansia e sofferenza tramite le frasi a dir poco lapidarie a cui ci ha da tempo abituati: «ti desidero così tanto, ma potresti essere chiunque». Un disincanto e una sottile disperazione che riverberano anche in altri pezzi eccellenti quali No Choir e, soprattutto, The End of Love, in cui la Welch traccia un inquietante parallelo tra la propria esperienza e il suicidio della nonna (di cui lei stessa, da adolescente, fu testimone). Eppure, simili sentimenti convivono con le struggenti speranze espresse in 100 Years e June, sorta di elegie del potere sovversivo e rinvigorente dell’amore e dell’arcano mistero che qualsiasi impulso affettivo rappresenta; il che dimostra, una volta di più, la versatilità stilistica e tematica di Florence e la sua ammirevole capacità di cambiare registro con efficacia costante quanto sorprendente.

Del resto, il carattere palesemente autobiografico dell’intero album è rivelato in modo lampante in ogni traccia – anche in brani apparentemente più «leggeri» quali South London Forever, in cui la Welch celebra le proprie radici londinesi impiegando arrangiamenti e vocals che ricordano una figura di culto dell’art rock al femminile come Kate Bush; cosa che si può dire anche di Grace, ballata nostalgica e piena di rimpianto incentrata sul legame spezzato con la sorella, alla quale l’artista rivolge scuse sincere quanto dolenti per gli errori del passato e il conseguente distacco. Questo spirito riflessivo e carico di sentimento si ritrova, a maggior ragione, in Patricia, omaggio poetico e viscerale alla musa ispiratrice di una vita, l’iconica sacerdotessa del rock Patti Smith: un brano dal testo assai interessante, dal momento che lo stile narrativo di Florence si fa qui volutamente ibrido, in un richiamo non troppo velato al songwriting del suo idolo. 

E in effetti, parecchi brani della tracklist presentano liriche di stile più introspettivo del solito – e, soprattutto, di stampo intimamente personale, al punto da ricordare quasi una Tori Amos scarna e rivelatrice; anche perché questo High As Hope è caratterizzato da uno spirito maggiormente cantautorale rispetto alle recenti tendenze di Florence. In tal senso, si tratta senz’altro di un album più intenso e sentito del precedente How Big, How Blue, How Beautiful (2015), il quale aveva mostrato apparenti concessioni a una forma di rock più radiofonico, deludendo parecchi dei fan di vecchia data. La nuova svolta «intimista» e autobiografica oggi inaugurata da High As Hope si rivela così una carta vincente, che permette ai Florence + the Machine di commuovere e coinvolgere l’ascoltatore con ancor maggiore forza e vigore rispetto al passato; facendo ben sperare per il futuro di un gruppo che rappresenta senz’altro una delle stelle più sfolgoranti nell’odierno firmamento dell’indie rock inglese.