Chi non festeggerebbe volentieri il Natale in casa Buddenbrook tra il profumo dell’abete e i dolci sparsi ovunque: marzapane e torte brune decorate di mandorle e zucca candita. Poi il pranzo, servito nella galleria a colonne, con un gustoso menu a base di carpe al burro e vino del Reno, tacchino ripieno di marroni, uva passa e miele, e baisers col sorbetto accompagnati da calici di un dolce vino greco. Un vero paradiso dove giovani e anziani intonano l’inno O Tannenbaum e la vecchia consolessa, ormai vedova, tiene come sempre il suo fervorino invitando tutti a brindare in serena armonia. Anche in assenza del defunto capostipite Johann, la liturgia familiare conserva il suo ruolo rispecchiando l’immagine sociale di una grande, per quanto ormai decadente, famiglia borghese. Nelle pagine del suo romanzo Thomas Mann dà vita a una messinscena che evoca un felice passato come per scacciare inquietanti fantasmi che si addensano sul futuro in cui è proiettato il piccolo Hanno, l’ultimo discendente, che guarda come in sogno il teatrino e l’harmonium, lucido e bruno, che ha avuto in regalo.
Ben diversamente dai due bambini, Konrad e Sanna, fratello e sorella, che nella notte di Natale si smarriscono tra i monti, di ritorno da una visita ai nonni, in un regno misterioso di ghiaccio e di neve, per poi attendere trepidanti la luce del nuovo giorno e la salvezza. Nel racconto dell’austriaco Adalbert Stifter, Cristallo di rocca, del 1853, una natura carica di mistero e di inquietante attesa prepara una sorta di rinascita verso la vita. «Mamma – dice la piccola al suo ritorno – questa notte, quando eravamo sulla montagna, ho visto il Bambin Gesù». Siamo ad altre latitudini, ben lontani dal mondo borghese, tra la magia della favola e la riflessione sulla realtà della condizione umana.
Eppure questo è il Natale, come scriveva Rainer Maria Rilke in una delle sue annuali lettere alla madre in occasione di tale festività: «Sentire che in fondo i nostri più grandi desideri, se solo apriamo a loro il nostro cuore, non possono non essere esauditi». Come la speranza dei due bambini, che vagando nella neve trovano infine soccorso e rientrano felici al villaggio natio.
Ed è ancora Rilke a evocare nella sua poesia Natale è il più silente giorno dell’anno la magia di una natura che sola sembra veramente accogliere il grande mistero, mentre gli occhi dei fanciulli si spalancano e grandi cieli albeggiano. Un’immagine mistica e romantica che in Hermann Hesse si trasforma nella sensazione che l’intero universo, stelle, monti, valli, paesi lontani, popoli stranieri, luna e sole siano dentro di lui. È forse il momento – ricorda in una delle sue poesie natalizie – «in cui l’uomo è pronto per l’amore: / Credo allora che il Natale non sia lontano!». Un’attesa purtroppo senza risposte, giacché la violenza della guerra annichilisce il senso stesso della festività.
Nel surreale e visionario racconto Natale del 1942, di appena undici righe, Dürrenmatt dipinge un paesaggio di desolazione dove l’aria è morta e nero il cielo. L’anonimo protagonista scorge in quella vuota pianura un corpo disteso sulla neve: è Gesù Bambino. Non ha occhi, le membra sono rigide, l’aureola è un disco gelato, che quell’uomo affamato non esita a mangiare. Poi aggiunge: «Sapeva di pane stantio. Gli staccai la testa con un morso. Marzapane stantio. Proseguii». Qui tutto scompare: l’uomo, Cristo e Dio. Non c’è speranza né rinascita di fronte all’orrore del mondo. È il punto terminale, tra blasfemia e nichilismo, di un percorso che si ripete all’infinito. Basta pensare alla guerra in Ucraina dei nostri giorni, alla follia che distrugge vite e paesi, all’indifferenza tracotante che non arretra di fronte a nulla.
Il Bambin Gesù ha vita difficile tra gli scrittori di lingua tedesca di quegli anni. Come nel breve racconto del 1946 I tre Magi oscuri di Wolfgang Borchert, autore di un dramma che fece storia nell’immediato dopoguerra, Fuori davanti alla porta. Anche qui gelo e desolazione in una povera casa di periferia, dove c’è un bimbo appena nato, che il padre vede rientrando con un po’ di legna per il fuoco. La moglie è pallida e stanca, ma in fondo felice per quel visino tondo che le giace accanto. Ed ecco che tre uomini si presentano alla porta per riposarsi un attimo. Forse soldati, con vecchie divise. Uno tremante e un altro senza mani, ma con piccoli doni: caramelle per la donna e un asinello di legno per il bambino che inizia a urlare mentre i tre gli si accostano per poi andarsene. Ha gridato ed è vivo, bisbiglia la donna, e oggi, aggiunge, è anche Natale. Già, bofonchia il marito, mentre dalla stufa arriva una manciata di luce che illumina quel visino che dorme. Qui c’è vita e dunque speranza, pur in un paese distrutto dalla guerra che ha spento la salvifica luce di Betlemme. Lo ricorda Peter Huchel nella ballata Dicembre 1942, dove sullo sfondo della terribile battaglia di Stalingrado si profilano le sagome di una natività annichilita: una misera capanna, di fronte a cui giace il cadavere di Maria, tre soldati che le passano accanto mentre si odono le urla del bambino. Immagini ambivalenti, guerrieri o re magi, che «cercano la strada e non vedono stella alcuna».
Difficile riattivare la speranza in un mondo così sconvolto e del tutto indifferente al destino dei più miseri, sembra dirci anche la poetessa Marie Luise Kaschnitz nella sua lirica Notte di dicembre, che tuttavia lascia aperto uno spiraglio. Come suona il suo ultimo verso: «È morto il bambino? Il bambino non muore mai». Perché proprio lui in tutta la sua fragilità è il simbolo d’ogni possibile rinascita, un segnale di speranza in un mondo assurdo e violento, a cui allude anche Erich Fried nel suo Canto di Natale del 1947, dove immagini frammentarie evocano l’infelice scenario di un mondo immiserito. «Un giaciglio di paglia – recitano la prima e l’ultima strofa – / Una parete di vento / Un’ondata come culla / Un bimbo».
Solo lo sguardo satirico di Heinrich Böll riporta un po’ di festa, anzi la dilata in un gioco quasi surreale. Nel suo esilarante racconto Tutti i giorni Natale, che lo scrittore lesse nel 1952 in un incontro del Gruppo 47, la tradizione familiare si trasforma in un grottesco rituale senza fine. Come a casa della zia Milla che amava soprattutto una cosa: addobbare l’albero di Natale. Per lei la guerra era una forza pericolosa solo perché metteva in crisi il suo progetto. Lei pensava solo ai nanetti di vetro con il loro martelletto di sughero da appendere con figure di marzapane, e all’angelo vestito d’argento in cima all’albero, che a intervalli muoveva le labbra e sussurrava: «pace, pace». Una delizia destinata per lei a non finire mai: inizia a urlare se qualcuno nei giorni della Candelora cerca di disfarlo. E urlerà per un’intera settimana. Non servono medici né medicine: l’unica vera cura è procurare un nuovo albero e ogni sera ripetere la festa perché, anche a Carnevale e più tardi nei mesi estivi, la zia è ormai convinta che sia sempre la vigilia di Natale. La famiglia è allo sbaraglio: la cugina Lucie sembra impazzita, mentre gli altri sono alla ricerca di sempre nuovi abeti, nanetti e dolciumi. Poi, giunti allo stremo, si faranno sostituire da attori, con cui la zia si intrattiene felice.
Si disse, allora, che Böll aveva voluto stigmatizzare il carattere falsificante di un’epoca di restaurazione. Ma l’ossessione di Milla sembra ricordarci altresì una festa che ruota attorno a un eterno cliché: oggi più che mai quello del consumo e dei regali. Se tutti i giorni è Natale, allora non c’è speranza di ritrovare il vero Bambin Gesù.