Forse è impossibile dire quale sia stato il più grande musicista dell’ultimo secolo, ma Mstislav Rostropovich, oltre a rientrare di diritto nell’ideale «top ten» assieme a giganti come Karajan, Toscanini e Rubinstein è senza dubbio quello che più ha segnato la Storia, non dell’arte ma sociale e politica, degli uomini e degli Stati. Lo testimonia l’ultimo, splendido film di Bruno Monsaingeon, violinista, direttore e regista che ha immortalato nelle sue pellicole le storie di virtuosi come Menuhin, Glenn Gould e Richter: non a caso The Indomitable Bow si apre con una testimonianza di Alexandr Solgenitsin, il cui Arcipelago Gulag fece conoscere al mondo gli orrori della versione comunista del lager. Un nemico del Partito che Rostropovich salvò ospitandolo dal 1970 al 74 nella sua casa; era un fatto noto, ma troppa era la notorietà del musicista perché il Kgb lo colpisse proprio lì. Lo stesso violoncellista guida la telecamera di Monsaingeon nelle stanze dove visse Solgenitsin, raccontando della sua paura di trovarlo assassinato e di come si ostinasse a vivere con un rublo al giorno, cibandosi di rape, cavoli e un po’ di latte.
Non è il primo capitolo del braccio di ferro che Rostropovich instaurò col potere comunista: nel 1968, mentre i carri armati invadevano Praga, lui vi si precipitò per suonare il Concerto del boemo Dvorak con la Filarmonica Ceca. Dopo aver alternato le immagini delle vie e del teatro della capitale ceca il film passa al terzo atto della sfida al potere, introdotto dall’intervista a Yehudi Menuhin. Nel 1974 l’Onu invitò il mitico violinista per un concerto, lui volle coinvolgere il grande pianista Wilhelm Kempff e l’amico Slava; ma per l’aiuto a Solgenitsin Rotropovich era stato vittima di un duro ostracismo: non solo non poteva esibirsi fuori dalla Russia, ma anche in patria gli erano concesse solo sale minori di paesini sperduti (lo si vede infatti suonare e cantare, comunque divertito, con massaie, cameriere e anziani).
Breznev negò a Rostropovich il permesso di recarsi a Bruxelles, dicendo a Menuhin che era malato. Yehudi chiamò Slava che gli spiegò la situazione, la telecamera inquadra il telegramma in cui il violinista minaccia Breznev di presentarsi in mondovisione all’Onu spiegando perché il tanto atteso trio non poteva esibirsi. E il segretario del Partito cedette. È impressionante vedere, sequenza dopo sequenza, come tutta la potenza del Partito sembri impotente contro Rostropovich: lo sottopose a restrizioni e angherie, ma non riuscì mai a impedirgli di essere se stesso, di far musica e di essere universalmente ascoltato. Anzi, la fama planetaria del violoncellista iniziò proprio nel momento in cui, mentre era a Bruxelles, venne esiliato: dapprima per due anni (anche se lui, trasferitosi a Parigi, si proclamò orgoglioso cittadino russo innamorato della sua terra), poi per sempre, con il ritiro della cittadinanza.
Fu un duro colpo per Rostropovich (la moglie racconta che lo seppe dalla tv mentre era sotto la doccia), ma il film evidenzia come da lì il suo carattere si modificò, diventato più allegro e istrionico: non più solo il padre che gioca con le figlie in campagna, insegna loro a suonare e le schizza con l’acqua delle fontane, ma l’uomo pubblico che ride e scherza con i presidenti americani (vantandosi di essere l’unico ad essere andato d’accordo con democratici e repubblicani) e i regnanti d’Europa: nel marzo 1997, per la festa del suo 70°, assieme ai maggiori interpreti della classica il palco ospita Elton John (che dal piano intona Happy Birthday) e Lady Diana.
Poi arrivò la caduta del Muro di Berlino, con Rostropovich a precipitarsi davanti alle macerie per suonare Bach; il film dopo quelle immagini, inquadra Rostropovich che torna in patria e si stupisce vedere la folla oceanica (impensabile per qualunque altro musicista classico e oggi pensabile solo per il papa) che lo attende all’aeroporto e ne scorta il taxi; eccolo poi in piazza mentre viene abbattuta la statua di Lenin e lui da leader carismatico aizza il popolo proponendo di sostituirla con quella di Solgenitsin (e pur senza dolby surround rintocca poderoso il boato d’assenso).
Ma come poté un musicista, e per di più non rock o pop ma classico, assurgere a un tale ruolo? Monsaingeon se lo domanda e trova la risposta nella spiegazione forse più banale ma allo stesso tempo più suggestiva: semplicemente non rinunciando a vivere con libertà e sincerità la sua vita e la sua arte. Perché Rostropovich fu innanzitutto un musicista sommo e il film continuamente alterna i momenti «di storia» con documenti di recital e concerti, dove prorompono il suo virtuosismo funambolico e la sua passione debordante.
Con ritmo frenetico si susseguono scale, arpeggi e cadenze che immortalano il suo suono inconfondibile, anche come pianista: lo si vede mentre accompagna in recital il soprano Galina Vishnevskaja; la conobbe per caso e dopo quattro giorni la sposò, spiegando a chi gli rendeva conto di un passo così affrettato di aver perso quattro giorni; e sulle doti canore delle consorte gigioneggia definendolo «soprano lirico in teatro e soprano drammatico in casa».
Gli dedicarono 105 nuove opere, alcune di scarso valore (ma per lui valeva sempre la pena renderle pubbliche) e altri capolavori; si ritrovò a imparare il difficilissimo concerto di Dutilleux in una notte, lo studiò da mezzanotte alle sei, andò a dormire per poi eseguirlo perfettamente a memoria alla prova delle 10. Le sequenze finali sono per le Suite di Bach che incise nella cattedrale di Vezelay; passeggiando davanti al portico si confessa spiegando il senso dell’arte come dimensione dello spirito: per lui fu una finestra aperta sul cielo tra le mura di piombo del Comunismo.
E alla domanda se avrebbe rifatto tutto la risposta è un «sì» sicuro e gioioso: «Anche anche se non mi avessero più fatto suonare; anche se mi avessero ucciso».