Più che i chili, per Yefim Bronfman è difficile portare quel soprannome, «brontosauro». Gliel’ha affibbiato nel 2000 Philip Roth: «Poi, ecco apparire Bronfman. Bronfman il brontosauro! Mister Fortissimo! Bronfman viene a suonare Prokof’ev a un ritmo tale e con una tale aria da gradasso che tutta la mia morbosità vola fuori dal ring». Così il grande scrittore americano descrive il pianista uzbeko: aveva assistito a un suo concerto a Tanglewood e ne era rimasto così colpito da immortalarlo nel suo romanzo La macchia umana. «È un uomo considerevolmente massiccio nella parte alta del busto, una forza della natura mimetizzata dalla blusa di una tuta, uno che è arrivato al Music Shed dal circo dove esibiva i propri muscoli e che ora se la prende col piano: una sfida ridicola, per la gargantuesca energia in cui sguazza. Più che all’uomo che lo suonerà, Yefim Bronfman somiglia a quello che dovrebbe trasportarlo».
A folgorare Roth non era solo la corporatura, ma il piglio con cui si avventa sulla tastiera: «Non avevo mai visto nessuno gettarsi su un pianoforte come quel robusto barilotto di un ebreo russo con la barba di tre giorni. Quando avrà finito, penso, dovranno buttarlo via. Lo sta schiacciando. Non gli lascia nascondere nulla. Qualunque cosa avrà dentro dovrà uscire, e con le mani in alto». Il brontosauro della classica approda questa settimana al LAC, ospite lunedì di Lugano Musica con il Bayerischer Rundfunk diretto da Mariss Jansons: per loro il Quarto concerto per pianoforte di Beethoven.
«È l’unico dei cinque Concerti per pianoforte di Beethoven che inizia con l’assolo del solista. Anche nel Quinto devo affrontare nelle prime battute degli arpeggi virtuosistici, ma ci sono anche dei poderosi accordi a piena orchestra. Qui no, ci si trova davvero da soli, un inizio che sembra scritto per quartetto d’archi e che bisogna affrontare con grande semplicità; Beethoven marca piano, non pianissimo. Poi l’orchestra attacca con le stesse note, ma inquadrate in un’armonia differente; per me è il momento più importante dell’intero concerto: l’orchestra deve suonare più piano del pianoforte, per questo io devo essere leggero, ma non troppo soft», e aggiunge, «Per me le parti più difficili non sono quelle virtuosistiche; il difficile è rendere le sfumature, i pianissimi e i piani».
Quasi a prevenire la domanda che sorge spontanea – chissà quante volte se la sarà sentita rivolgere – aggiunge: «No, i forti non mi vengono facili perché ho la forza di un brontosauro. Primo perché non mi sento un brontosauro che si muove in una cristalleria: sul palco per fortuna non ci sono molti oggetti fragili da far cadere o rompere… Secondo perché forte e piano per me sono una questione di profondità di pensiero ed esecuzione: le grandi orchestre, al di là di un loro stile che le rende uniche, si distinguono non per la capacità di suonare fortissimo, quello lo ottengono in tante, ma per saper eseguire perfettamente i pianissimi».
Tra le più prestigiose formazioni sinfoniche al mondo figura proprio la Bayerischer Rundfunk, guidata tra l’altro da un direttore anch’egli annoverato tra le quattro, cinque migliori bacchette del pianeta. «Con loro ho già affrontato tutti e cinque i concerti, ma questa integrale è legata anche alla Svizzera: l’ho registrata alla Tonhalle di Zurigo con David Zinmann». La corazzata bavarese offre al pubblico luganese anche la Quinta sinfonia di Prokof’ev, uno degli autori preferiti di Bronfman. «Ma non mi etichetti come “specialista”. Solo perché suono spesso Prokof’ev vengo indicato come uno specialista di Prokof’ev: mi sembra un’assoluta stupidata, come in generale considero senza fondamento la definizione di “specialista” di un determinato autore: come si può suonare bene Prokof’ev senza saper suonar bene Mozart? Se uno è bravo è bravo, il resto sono sottigliezze da critici e musicologi che non mi appartengono».
Un pensiero forse opinabile, ma che al 59enne virtuoso di Tashkent permette di tornare al libro di Roth: «Sì, ammetto che mi sono divertito a leggerlo, ma esprime solo l’impressione di un autore che mi ha ascoltato una volta e basta, tra l’altro nel Secondo Concerto di Prokof’ev, una pagina davvero potente. Io mi vedo diversamente, sento di avere più sfumature, anche quelle che arrivano fino al pianissimo».
Senza presunzione Bronfman rivendica un curriculum che non è limitabile a una tecnica acrobatica: trasferitosi nel 1973 con la famiglia a Tel Aviv, a 16 anni debuttava con la Israel Philharmonic, a 17 suonava con Mehta e a 18 sempre con la Israel teneva una lunga tournée in America. Nonostante i centinaia di recital tenuti in tutto il mondo, confessa che «se potessi mi metterei a suonare dietro una tenda, così che il mio modo di suonare, i miei movimenti e la mia stessa figura non siano occasione di distrazione per il pubblico. Da una parte perché per far emergere la verità di un certo brano cerco di rivolgermi a un pubblico ideale, non a dei volti precisi che ho davanti, dall’altra perché forse sono timido: in effetti anche quando mi trovo circondato dall’orchestra, davanti a tanti altri musicisti, con uno strumento totalmente diverso da tutti gli altri, ogni tanto mi vien da pensare che mi sentirei più a mio agio se fossi nella seconda fila dei violini».
Qualche volta mentre suonava è squillato un cellulare «ma ho sempre tirato dritto. Non penso l’abbiano fatto apposta e quindi mentre sono lì che continuo suonare in cuor mio li ho già perdonati». Vuoi veder che Mister Fortissimo, che preferirebbe essere chiamato Mister Pianissimo, in verità è… «Mi piace Mister Buonissimo!».