Fin dalle sue prime apparizioni sulla scena internazionale, avvenute dal 1999 in poi con album dalle vendite a dir poco travolgenti – il più amato, The Resistance (2009), ha totalizzato oltre cinque milioni di copie – la rock band britannica dei Muse, capitanata dal vocalist Matt Bellamy, si è distinta non soltanto per le indubbie doti musicali, ma anche e soprattutto per uno spiccato spirito di matrice «sovversiva»: un’attitudine che poco ha a che fare con l’idealismo a tratti un po’ ingenuo delle rockstar di trenta o quarant’anni fa, ma si ricollega piuttosto a uno sguardo ben più disincantato e realista – senza indugiare in quello che si tende a definire con vago spregio come «complottismo», ma propugnando piuttosto la legittimità della mancanza di fiducia nelle istituzioni e dell’insaziabile sete di verità che dovrebbe animare ogni cittadino.
E com’era prevedibile, gli ultimi due anni e mezzo, vissuti tra paranoie pandemiche, restrizioni d’ogni tipo e scricchiolii democratici quasi da incubo, non hanno, infine, che enfatizzato ulteriormente questa visione caustica e distopica del mondo, da sempre elemento integrante nella vena artistica della band inglese; è quindi naturale che il nuovo album (non a caso intitolato Will of the People – «la volontà popolare»), costituisca per i Muse la diretta prosecuzione di questa tendenza. Lo si nota fin dalla title track, che trasuda speranze di una ribellione qui definita come vera e propria «dissacrazione», esemplificata dalla distruzione dei simboli dietro i quali l’oppressione del potere può nascondersi; e non è certo un caso che i titoli delle varie tracce parlino da sé – a partire da Compliance, ruvida ballata dagli accenti elettronici carichi di sfumature angoscianti, perfette per illustrare il terribile dilemma etico rappresentato dalla sottomissione del cittadino a quella sorta di «coercizione preventiva» che lo stato di emergenza comporta in ogni Paese del mondo («abbiamo bisogno semplicemente della tua condiscendenza / non proverai più dolore, niente più ribellione / dacci solo la tua condiscendenza»); il tutto in contrasto con il successivo Liberation, il quale invece si colloca all’estremo opposto, trattandosi d’una vera, epica cavalcata pop che, in termini di arrangiamenti come di orchestrazione (si vedano gli irresistibili cori in falsetto) ricorda molto da vicino i Queen di A Night at the Opera. Tuttavia con Won’t Stand Down ritorniamo nel pieno di una violenza definibile come hard rock, infusa di atmosfere a tratti quasi metal; il che rende il passaggio alla traccia successiva, Ghosts (How Can I Move On) ancor più sconcertante. Di colpo infatti l’ascoltatore si trova immerso in un delicato brano intimista – una straziante dichiarazione di fedeltà verso qualcuno a cui si è dovuto dire addio, costruita su un ossessivo quanto struggente tappeto sonoro costituito unicamente dal pianoforte (e qui ritorna l’accostamento con il periodo d’oro dei Queen di Freddie Mercury).
E se Kill Or Be Killed ripropone invece uno stile per i Muse più tradizionale, rimandando direttamente agli esordi e caricando i toni di sonorità molto rock, particolarmente interessante risulta poi un brano epico come Verona, il cui titolo intrigante si deve probabilmente al fatto che l’Italia è stato uno dei Paesi in cui le misure anti-Covid hanno maggiormente condizionato la vita dei cittadini («…Togliti i vestiti e togliti la mascherina (…) Possiamo baciarci?, del contagio sulle tue labbra non m’importa (…) Non possono fermarci ora, non lascerò che tu ti senta sola»).
Dal punto di vista musicale, Will of the People ci pone così davanti a un ibrido davvero singolare: se la già citata title track costituisce una sorprendente miscela tra accenti rock e sfumature apparentemente ben più spensierate, quasi da pop anni 80 (gli Happy Mondays sono uno dei primi riferimenti a venire alla mente), l’intero lavoro si snoda lungo esperimenti curiosi quali il già citato Liberation, fino ad arrivare a brani sorprendenti come You Make Me Feel Like It’s Halloween, che offre addirittura un accompagnamento a base di organo in puro stile gotico. È quindi chiaro che questo disco rappresenta un tentativo, da parte della band, di alimentare ulteriormente la propria fama di formazione quantomeno versatile: del resto, nessuno può negare come la varietà abbia sempre costituito uno dei maggiori meriti della formazione di Bellamy, pur nell’evidente, costante volontà di conservare una cifra stilistica personale e immediatamente riconoscibile.
E se, da un certo punto di vista, Will of the People (nell’immagine la copertina) costituisce esattamente il tipo di album che ci si poteva oggi aspettare dalla band, è altrettanto vero che si tratta di un lavoro coerente e dall’innegabile forza e vigore espressivi; e il fatto che a tutt’oggi i Muse non abbiano mai vacillato, mantenendo la loro identità di band caratterizzata da grande onestà intellettuale (e da una spiccata capacità per la critica sociale) è certamente uno dei loro più grandi meriti.