Alle mie nipoti
Francesca e Anna Greta
Era il mattino della vigilia di Natale e Arturo, abbracciato all’orsetto Dodò, cercava nel dormiveglia d’immaginare la mattina dopo quando avrebbe trovato il trenino elettrico Rivarossi, con binari e stazioni, persino un passaggio a livello con semaforo, chiesto da tempo a Babbo Natale.
All’improvviso lo ridestò la voce concitata della mamma che gli intimava: «Arturo, alzati dài, infila i pantaloni, metti il cappotto e il berretto, dammi un bacio e segui lo zio che ti porta in macchina a Belcolle dove ti aspettano Anna e Luigi, poi veniamo anche noi». Arturo conosceva da sempre quei due anziani contadini che, abitando non lontano dalla loro casa di campagna, svolgevano per la sua famiglia tante piccole incombenze.
Non era ancora mezzogiorno quando, giunto a destinazione, si ritrovò nella cascina che tanto l’aveva affascinato negli anni precedenti ma dove poche volte era entrato.
E ora, rannicchiato nella poltrona sfondata di Luigi, trovava finalmente il tempo e la concentrazione per chiedersi come mai era stato spedito in fretta e furia lontano da casa proprio la Vigilia di Natale.
Dai discorsi dei grandi aveva capito che cercavano gli Ebrei per portarli via e molti stavano scappando. La notte prima aveva sentito risuonar per le scale ordini imperiosi, seguiti da un tramestio di passi e sbatter di porte ma, pensando a una festa, si era riaddormentato senza preoccuparsi. Ma adesso una cosa sola gli era chiara: domattina, al momento di aprire i regali, lui non ci sarebbe stato. La sua cameretta era ormai lontana e in un attimo tutto era cambiato. Guardandosi intorno con occhi resi più attenti dalla tensione, riuscì per la prima volta a cogliere la differenza tra la sua casa e la cascina. Le stanze dove vivevano le famiglie dei contadini si affacciavano, una dopo l’altra, sul portico che circondava il cortile e tutto si riduceva all’essenziale, non vi era niente di troppo. In confronto ai bambini che Arturo frequentava in città, i pochi che riusciva a scorgere dalla finestra erano magri, pallidi, vestiti poveramente. Per affrontare l’inverno non avevano che pesanti zoccoli di legno, una cuffia di lana grezza e un corto mantello di panno militare. Che cosa avrebbero ricevuto in dono l’indomani? Si chiedeva Arturo con curiosità.
Sapeva che da quelle parti giungeva soltanto Gesù Bambino e che, non avendo né slitta né renne, i suoi doni si sarebbero limitati a qualche mandarino, un sacchetto di mandorle tostate, caramelle di zucchero e una stecca di torrone.
Mentre si riscaldava con piacere al fuoco del camino, Arturo sentiva la mancanza del calore della mamma e di Dodò, l’orsetto di peluche con cui ogni notte condivideva sonno e sogni. Come aveva potuto dimenticarlo a casa? Solo adesso che, come lui era rimasto solo, riusciva a immaginare il dolore che aveva procurato all’amico.
Su tutto aleggiava il tempo sospeso della Vigilia: l’attesa di un personaggio tante volte immaginato eppure misterioso perché nessuno l’aveva mai incontrato. Passava di notte, quando tutti dormivano, depositando i regali che ciascuno desiderava.
Lungo il portico, davanti a ogni uscio, erano già stati posti i canestri nei quali i bambini avrebbe trovato i loro doni. Certo non ci sarebbe stato il suo: Gesù Bambino non sapeva che lui fosse lì. Stava per abbandonarsi allo sconforto quando lo fece sussultare un improvviso richiamo.
Balzò dalla poltrona e, puliti con la mano i vetri appannati, riuscì a scorgere in fondo al cortile una figura in cui riconobbe lo zingaro. Era giunto lassù la scorsa estate ma nessuno si aspettava di rivederlo d’inverno.
Alto e magro, vestito di nero, con la fisarmonica a tracolla, l’uomo oltrepassò il portone trascinando alla catena un gigantesco orso bruno, che poi era un’orsa. Subito i bambini, attratti dagli annunci gridati a gran voce, dallo sferragliar di catene e risuonar di campanelli, gli corsero incontro festosi. Senza occuparsi di loro, lo zingaro condusse quel barcollante bestione in mezzo al cortile dove, al suono della fisarmonica e con robuste strattonate al collare, l’avrebbe costretto a rizzarsi sulle gambe posteriori per improvvisare un goffo, dondolante balletto.
In realtà quell’esibizione risultava stonata e inopportuna in confronto alla vibrante e malinconica musica tzigana, ma nessuno sembrava notarlo, tanto era mirabile ciò che stava accadendo. Terminato il breve spettacolo, dopo aver legato l’orso all’albero appena fuori dal cortile, lo zingaro passò di casa in casa chiedendo qualche moneta, cui il contadino più ospitale aggiunse un bicchier di vino rosso, in fondo era Natale.
Tutti erano ormai rientrati quando si udì levarsi il grido allarmato del gitano: l’orso, spezzata la catena, era scappato senza lasciar traccia. Nell’eccitazione generale iniziò una ricerca cui parteciparono tutti. A gruppi entrarono nella stalla, salirono sul fienile, frugarono nel granaio, si dispersero nell’orto e tra le vigne... ma invano. Chissà dove era andato? Arturo, che non si dava pace, cessò di rimpiangere il trenino elettrico anzi, se avesse potuto, l’avrebbe barattato volentieri per l’orsa. Lei sì che gli stava a cuore. Le indagini durarono tutto il pomeriggio, finché il buio della sera obbligò a sospenderle, tanto più che bisognava prepararsi per la Messa di mezzanotte.
Anche Arturo si avviò con gli altri alla chiesa parrocchiale che si ergeva tra le basse case del paese. Mentre procedevano timorosi di veder sbucare una massa nera dagli alberi, il bambino pensava con tenerezza a quella povera bestia che, sola come lui, lontana da casa come lui, vagava spaventata nella notte. Invaso da un sentimento di compassione, si propose di ritrovarla ad ogni costo. Prima dell’alba sarebbe uscito a cercarla e di certo da qualche parte l’avrebbe scovata. Quando, poco dopo entrò in chiesa Arturo scorse, in una navata laterale, il presepe che veniva allestito ogni anno. La scena era composta da una mangiatoia ricolma di fieno dinnanzi alla quale erano collocate due statue a misura d’uomo, la Madonna e San Giuseppe in adorazione di Gesù Bambino deposto su un mucchietto di paglia.
Mentre, tra canti e profumi d’incenso, tutti gli sguardi erano puntati sull’Altare, Arturo, stanco e assonnato, dopo aver vagato con lo sguardo lungo la navata centrale, si soffermò a osservare la cappella laterale dove gli parve di scorgere, sulla paglia del presepe, una grossa ombra in movimento. Chi poteva essere? Non una statua di gesso... e se fosse stata proprio lei? Ma certo, non poteva che essere lei: l’orsa che tutti cercavano. Avrebbe voluto annunciarlo a gran voce ma, non trovando il coraggio di interrompere la cerimonia, decise di attendere e riflettere: se avessero conosciuto la sua scoperta, l’avrebbero considerato un eroe ma purtroppo l’orsa sarebbe stata riconsegnata al proprietario che, riallacciati catene e sonagli, l’avrebbe trascinata in giro per il mondo, ogni giorno più vecchia e più stanca. Che fare? Mentre i cori di Natale elevavano gli animi oppressi dagli eventi che stavano sconvolgendo il mondo, il più contento era senz’altro Arturo. Come sapeva solo lui, l’orsa era stata ritrovata, ma l’avventura non era terminata: doveva tornare alla sua terra, riunirsi alla sua famiglia e, col suo aiuto, ci sarebbe riuscita.
Prima di uscire dalla chiesa lo sguardo indagatore di Arturo aveva scorto una porticina malandata che dava sul retro dell’altare maggiore. Poiché le ante scardinate erano soltanto accostate, sarebbe stato facile aprirle e rientrare. Secondo il suo piano, le cose sarebbero andate così: mentre tutti dormivano avrebbe portato via l’orsa dal Presepe senza restituirla a nessuno. Giunti a casa, Arturo attese che il giardiniere e la moglie si fossero addormentati e, senza far rumore, ritornò di nascosto in chiesa. Dire che non avesse paura sarebbe una clamorosa bugia: tremava per il freddo e per i pericoli sempre in agguato nella notte e nel bosco.
Aperta la porticina, il bambino si avviò verso il presepe con il timore che la bestia, svegliata di soprassalto, gli balzasse addosso. Ma avvenne tutto il contrario: l’orsa l’accolse come se l’avesse atteso da sempre e, senza opporre resistenza, si lasciò accompagnare fuori, nel buio della notte. Arturo, dopo averle accarezzato più volte il groppone, si decise a lasciarla andare ma continuò a seguirla con lo sguardo finché la vide inoltrarsi nel bosco con passi decisi, ben diversi da quelli lenti e pesanti, trascinati dalla catena. Finalmente libera, finalmente felice, pensò il bambino richiudendo dietro di sé la porticina.
Sentendosi soddisfatto, era già passata mezzanotte, Arturo rincasò correndo nella notte scura senza nessuna paura. Giunto ansimante sotto il portico, vide la schiera dei cestelli con i doni portati da Gesù Bambino tra i quali, chi l’avrebbe mai detto? C’era anche il suo. Che cosa poteva contenere? Non certo il trenino Rivarossi!
Ma no!
Con sua enorme sorpresa vi trovò proprio l’amato, invocato, orsetto Dodò. Con slancio lo strinse al petto e, rientrato in casa, s’infilò con lui sotto le coperte dove, stretti stretti, si sarebbero confidati le loro avventure.
Ma prevalse la stanchezza e poco dopo, conclusa quella strana Vigilia di Natale, vissuta tra la luce e il buio, la veglia e il sogno, la tristezza e la gioia, Arturo si addormentò sereno: minacciato dalla realtà, protetto dalla fantasia.