Bibliografia

Patricia Highsmith, Diari e taccuini 1941-1995, Milano, La Nave di Teseo, Milano, 2022.


Il mondo segreto di Patricia Highsmith

I diari e i taccuini ritrovati in un cassetto dalla sua editor Anna von Planta sono ora usciti per La Nave di Teseo
/ 19.12.2022
di Manuel Rossello

Ora che scrivere gialli pare essere diventata la più comune attività dopolavoristica, chissà se i novelli forgiatori di detective, commissari e poliziotti si sono accorti di avere a disposizione un documento prezioso in cui, disseminati in più di mille pagine, vengono svelati i segreti di bottega per scrivere una trama perfetta. Composti tra il 1941 e il 1992 i Diari e taccuini di Patricia Highsmith (La Nave di Teseo, 2022) testimoniano splendidamente il desiderio di emergere in forza della scrittura, così come l’affermazione di un talento ostinato ma ancora acerbo («Ho in me così tanti libri che sono come un forno pieno zeppo senza un fiammifero»). È rara la possibilità di seguire giorno per giorno la mente di un grande scrittore dall’età del college fino a poco prima della morte. Patricia Highsmith ci ha fatto questo magnifico regalo scrivendo delle proprie sofferenze, delle frustrazioni, delle illusioni, degli amori, della letteratura, del sesso, dell’alcol, insomma della vita, con un’onestà pari solo al talento di una narratrice precocissima e decisa a imporsi a ogni costo nella New York degli anni Quaranta del XX secolo. In questo affollatissimo resoconto della propria vita divisa tra Stati Uniti, Francia, Valle Maggia e Terre di Pedemonte la Highsmith si mette a nudo consegnandoci un diario implacabile come quello di John Cheever e deliziosamente colto come quello di Julien Green. La New York di quegli anni è un concentrato irripetibile di stimoli artistici e la Highsmith si muove a suo agio in quel gigantesco frullatore culturale.

Non ha ancora concluso il college che, con grande scandalo di sua madre, entra in un gruppo di artiste, giornaliste e docenti universitarie. Esce freneticamente, beve molto, allaccia relazioni sentimentali travolgenti con uomini e con donne, coglie ogni occasione per sentirsi viva e soprattutto sente di essere nata per la scrittura («Ho pensato alla trama di un racconto, è nel mio corpo come un bambino non nato»).

Questi diari conquistano il lettore, oltre che per la precocissima maturità, per la coabitazione di alto e basso (parlando di altro annota con noncuranza: «Ho iniziato Finnegans Wake»; siamo nel 1941, per dire la preveggenza e il gusto già sicuro) e per l’ironia che punteggia molte pagine («Rosalind mi è superiore per età, conquiste lavorative e pensieri sulla Weltanschauung»).

Nella Grande Mela di quegli anni (gli stessi raffigurati in Radio Days di Woody Allen), sempre a corto di soldi, è di casa nei jazz club più in voga del Greenwich Village (a quell’epoca il «Village» è un’enclave di tolleranza dove esprimere la propria omosessualità). A Manhattan frequenta il Famous Door, dove si esibiscono Glenn Miller, Billie Holiday e Count Basie, ma per ubriacarsi va in casa delle amiche più intime. Di lì a poco inizia a scrivere per una rivista di fumetti e conosce Stan Lee prima che il grande disegnatore diventi un mostro sacro. Appena guadagna decentemente va a vivere da sola e si ritrova Piet Mondrian come vicino di pianerottolo.

Sogna di scrivere per il «New Yorker» e intanto manda alcuni testi a «Harper’s Bazaar», dove hanno debuttato Capote, Cocteau, McCullers e Auden. Cerca di piazzarne un altro sul «Saturday Evening Post», il settimanale illustrato da Norman Rockwell. Ci prova anche con «Vanity Fair», non più mensile di moda ma prestigiosa rivista letteraria. Nel settembre del ’42 tenta il grande salto, manda un racconto al «New Yorker»: verrà pubblicato, ma con un titolo scelto dalla redazione. E sente di avercela fatta quando un critico le dice che leggendola riconoscerebbe il suo stile.

Nei giudizi critici mostra da subito una disinvoltura che rasenta la sfrontatezza: «Morte a Venezia un capolavoro? Chiunque lo sarebbe con un’idea così bizzarra e la capacità di scrivere fluidamente»; «Claudine si sposa di Colette è la cosa più marcia in cui mi sia mai imbattuta»; «Vedo che ultimamente Vonnegut ammicca al fantasy e usa spesso la parola “fottuto”». E come tutte le giovani promesse della letteratura, cita Proust senza averlo ancora letto.

Le decine di quaderni pervicacemente compilati anche negli anni del successo internazionale sono una miniera per le sue prove successive e la seguono in tutte le sue peregrinazioni, fino agli ultimi anni ticinesi. Negli anni Ottanta è un’autrice pluripremiata: il Ciclo di Ripley è una «macchina da best seller», vari suoi romanzi diventano film. Acclamata in Europa, i media se la contendono. Nel 1988 un suo pezzo su Simenon viene pubblicato contemporaneamente da «Libération», «El País», «Der Spiegel» e dalla «Neue Zürcher Zeitung».

Tuttavia smette di scrivere il diario tre anni prima della morte per concentrare le forze residue nel lavoro. Intanto, nel 1991 si fanno insistenti le voci che la danno vincitrice del Nobel, che invece andrà a Nadine Gordimer. Ma è nelle Terre di Pedemonte, a Tegna, che trova la tranquillità per scrivere le ultime cose. Segue la costruzione della casa e quando vi abita finché può si occupa personalmente di spaccare la legna e progetta piccoli lavori di falegnameria. «Il faut cultiver notre jardin», avrebbe detto Candide.