Quella fra tecnologia e arte è una conversazione appassionante. La prima è sempre a rischio di obsolescenza. La seconda, per sua natura, esprime il desiderio di permanere nel tempo. Un dialogo fra protagoniste spesso in antitesi, ma che non possono fare a meno di rincorrersi. Sviluppi intricati, quanto affascinanti sono il frutto di questo complesso rapporto. Senza andare a scavare troppo a fondo nei secoli, l’invenzione della fotografia nel XIX secolo ne offre un buon esempio, storicizzato e studiatissimo. Seppure non nasca a uso esclusivamente artistico, la tecnica di rappresentazione fotografica viene subito adottata dagli artisti, che ne colgono il potenziale pur temendone la pervasività. La fotografia libera e al contempo priva i pittori dei loro compiti ritenuti fino ad allora basilari. Un’altra svolta si preannuncia con la nascita del cinema. Se la fotografia aveva permesso di dominare lo spazio osservato, con l’arrivo della nuova tecnica pare possibile afferrare addirittura il tempo vissuto. Il passaggio successivo spetterà alla televisione, che combina la trasmissione da uno a molti della radiofonia con la potenza visiva del cinema.
La videoarte nasce proprio come uso creativo del mezzo televisivo. I primi tentativi concepiscono il monitor come vero e proprio oggetto plastico. Nam June Paik, artista americano di origine sudcoreana, pioniere della disciplina, utilizza per le sue opere perfino il fastidioso sfarfallio bianco e nero o le bande colorate di fine trasmissione. Crea installazioni che sono assemblage di schermi: ne studia la composizione sia in termini scultorei, che di immagini visualizzate dai monitor. L’evoluzione della tecnica fornisce molto velocemente nuovi strumenti per nuove sperimentazioni. Anzi, la diffusione è tale che, fra anni Novanta e primi Duemila, le grandi biennali d’arte sono invase dal video.
Così, oggi, la videoarte rientra a pieno titolo fra i nuovi linguaggi del contemporaneo e Bill Viola può essere senza dubbio incluso fra coloro che hanno segnato questa strada. In quella conversazione fra arte e tecnologia, egli sceglie la via che passa sul crinale fra novità e tradizione. Ammira e conosce le opere del passato: paragona per esempio il realismo della pittura fiamminga rinascimentale all’alta definizione di oggi. Ha una tale familiarità con i grandi maestri che nei suoi video si spinge fino a ricreare e attivare le opere del Rinascimento. Un celebre esempio è Greeting del 1995. Ci appare subito familiare: fu Pontormo che nel XVI secolo scelse quella composizione, quei colori, quei gesti per raccontare il commovente incontro fra Maria ed Elisabetta. Fa sorridere ritrovare le due donne in uno scenario industriale, con abiti degli anni Novanta. Eppure la versione che ne dà Viola serve ad estendere per contemplare quelle stesse emozioni che l’artista toscano aveva tratteggiato per la sua Visitazione di Carmignano nel 1530.
La mostra in corso fino al 25 giugno al Palazzo Reale di Milano permette di vedere una buona selezione delle opere di Bill Viola, fra lavori storici e creazioni più recenti. L’artista aveva infatti cominciato a lavorare con la tecnologia piuttosto presto rispetto a ciò che succedeva nel resto del mondo dell’arte: parte dalla pellicola, ma passa presto al linguaggio elettronico, includendo in questo settore musica, video e televisione. È un uso della tecnologia senza troppe cerimonie. Egli anzi la considera uno degli strumenti più pericolosi al servizio dell’umanità, quando si scelga uno sguardo selettivo, una messa a fuoco ristretta, che ci permetta di vedere con precisione massima un soggetto, lasciando al buio persone, informazioni, temi che non vorremmo vedere né mostrare. Sceglie quindi un impiego limpido e non retorico della tecnica. La addomestica per creare un flusso ininterrotto di immagini, dove il tempo – dilatato o ristretto secondo necessità – è strumento al servizio dell’autore. Il concetto ha un diretto collegamento con la visione filosofica che sottende al suo lavoro, nutrita dallo studio delle religioni sia orientali che occidentali. Il tema del misticismo, di uno stato che permetta di superare il mondo tangibile in vista dell’unione con l’assoluto è uno dei suoi filoni principali di riflessione. Lo testimonia l’opera presente in mostra dedicata a Caterina da Siena – Catherine’s Room, 2001 – , ma anche la serie dedicata ai martiri e alla via che essi trovano per far fronte alla tortura che conduce al sacrificio abbandonando ogni resistenza (Martyrs). Nei suoi testi Bill Viola esprime molto chiaramente una visione del mondo che vive nel contrasto fra fisico e metafisico, tra anima e corpo, assimilati candidamente ad hardware e software. Le sue opere ambiscono in molti casi a far incontrare questi due estremi, tanto che assumono spesso le sembianze di una soglia. Avviene per esempio nel caso di Ocean Without a Shore, dove grandi schermi, dei tableaux vivants d’oggi, raccontano il passaggio di corpi fra la vita e la morte.
Studiare, collezionare e creare arte è per Viola il tentativo di sopravvivere a noi stessi, di vivere al di là della nostra vita. La tecnologia, invece, oggi più che mai è in evoluzione costante, nata già vecchia. In questo dialogo fra tecnologia e arte Viola mette la prima al servizio della seconda. I mezzi tecnici si fanno strumento per appropriarsi dell’arte, togliendola dal solco statico della pura finalità estetica, per attivarla, viverla e, senza imbarazzo, darle un uso concreto, liberandola.