Il mondo di Zerocalcare torna su Netflix

Il fumettista Michele Rech, in arte Zerocalcare, ci racconta la sua serie
/ 10.07.2023
di Blanche Greco

Il ragazzo con le sopracciglia a «spazzolone», nere come il peso dei tanti dubbi e sensi di colpa che si tira dietro per le strade del suo quartiere, Rebibbia alla periferia nord di Roma, è tornato. Con lui c’è il Secco, c’è Sarah, c’è il suo alter ego l’Armadillo (che ha la voce di Valerio Mastandrea), e tutto quel suo mondo variegato di borgata romana raccontato in Strappare lungo i bordi, con cui Michele Rech, in arte Zerocalcare, fumettista e autore, ha debuttato nei cartoon e su Netflix.

Una serie che oggi appare come un prologo, una presentazione di temi e personaggi dell’universo di «Zè», caratterizzato da quel linguaggio romanesco che non è un vero dialetto, ma una «parlata» per immagini, onomatopeica, ironica con quell’understatement tipicamente romano capace di suscitare la risata e di tramutare la realtà in cartoon, anche quando è scivolosa e complicata come nella nuova storia: Questo mondo non mi renderà cattivo. La vicenda è ambientata a «Tor Sta Ceppa» (termine slang che ricorda il nome delle vere borgate romane), dove l’arrivo di trentacinque persone, profughi dalla Libia destinati ad un centro d’accoglienza, mette gli abitanti gli uni contro gli altri. C’è chi grida all’invasione e si organizza per scacciarli; chi invece li difende a spada tratta e chi cerca di rimanere se stesso in mezzo a tante contraddizioni. Questa nuova serie, sei episodi di circa mezz’ora ciascuno, visibile su Netflix, prodotta da Movimenti Production, del gruppo Banijay, con Bao Publishing (l’editore dei fumetti), è stata presentata a Roma dove, a margine della conferenza stampa abbiamo incontrato Michele Rech, ossia Zerocalcare in carne ed ossa e maglietta nera, senza le «sopracciglione», ma in tutto e per tutto simile a come appare nel fumetto e nel cartoon.

Una sua nuova avventura, un monito morale, o una storia creata per raccontare i tempi difficili in cui viviamo?
Sono capace di raccontare solo quello che provo io e di tradurre in immagini ciò che ho vicino, che sento addosso, la realtà che mi sta intorno. Pensare di raccontare l’interiorità di qualcun altro che non conosco mi sembrerebbe un’operazione arbitraria. Mi sento quasi in colpa anche verso i personaggi di finzione, perché sento che posso parlare solo di me stesso. Questa storia in realtà è stata scritta quattro anni fa, prima di Strappare lungo i bordi, in un momento in cui stavo iniziando le prime prove di animazione da solo e non ero pronto a misurarmi con un formato più lungo com’è questo. Quanto al titolo nasce da una canzone di Pat, cantautore di Anguillara, e non vuole essere un monito, piuttosto un auspicio e raccontare la forza d’animo dei tanti personaggi della mia storia messi alla prova da esperienze difficili e che, tuttavia, trovano il modo di uscire dalle crisi senza sgomitare, senza passare sopra agli altri urlando «si salvi chi può». Ed io racconto gli uni e gli altri.

È una storia dove s’intrecciano temi politici, sociali e psicologici, dove è difficile riconoscere gli amici. Ma perché per descrivere i «cattivi» evochi persino Indiana Jones?
Come sempre questa storia parte da fatti veri con evidenti risvolti politici che la rendono più «divisiva» e complessa dell’altra, ma facendo apparire Indiana Jones volevo rendere l’idea, senza rinunciare ad una certa leggerezza. E preferisco parlare di “nazisti” invece che di “fascisti” per alcuni di quelli che si scagliano contro i profughi, perché nell’immaginario collettivo i primi sono connotati in modo chiaro, non ci sono dubbi possibili, come mostra anche Indiana Jones. In compenso credo davvero che nei quartieri di periferia, non tutti quelli che sono contro l’accoglienza siano «nazisti». Anzi cerco di fare una grossa distinzione tra le persone che ci vivono e soffrono sulla loro pelle tutti i disagi e la mancanza di servizi che affligge da sempre quelle borgate, il che li porta a considerare i rifugiati un peso in più; e invece chi sobilla e strumentalizza questo disagio solo per fini politici.

E Cesare, il personaggio nuovo di questa storia, che la induce a riflettere sull’amicizia, esiste davvero?
Nella mia vita ce ne sono stati tanti di amici come Cesare, e lui di fatto li rappresenta tutti. È un amico che è sparito dal quartiere e che di colpo dopo una ventina d’anni torna, ma non ci si ritrova più, non ha più punti di riferimento perché nel frattempo molti di quelli che sono rimasti, sono allo sbando quanto e più di lui. E così, alla fine, in cerca di qualcuno che lo aiuti a ricrearsi una realtà dentro la quale rifarsi una vita, trova gente che non è propriamente quella di cui aveva bisogno. Con questo, il mio giudizio su di lui non cambia. Ma forse cambia quello su me stesso: avrei potuto fare qualcosa in più per lui?

Le sembra di essere diventato cattivo?
Sarebbe arrogante da parte mia dire se sono diventato, o meno, cattivo. Se mi guardo indietro mi sento peggiore di com’ero anni fa, d’altronde non potrebbe essere diversamente, anche ciò che mi circonda sembra essere invecchiato piuttosto male. Gli ultimi dieci, sono stati per me anni di scelte, di compromessi e pure di «scivoloni», penso anche di aver ferito delle persone. Quello che suggerisco nella serie, e che penso, è che nella vita nessuno dovrebbe essere lasciato indietro e che le risposte ai problemi debbano essere collettive perché servono anche a chi in quel momento sta bene. Un mondo che sta male, prima o poi, viene a bussare anche alla tua porta.

Con «Strappare lungo i bordi» lei ha avuto un successo internazionale straordinario, la cosa la stupisce?
Mi ha colto di sorpresa l’affetto degli ispanici, perché sia in Spagna che in Sud America, si sono mostrati molto ricettivi su cose che pensavo molto italiane anche sotto l’aspetto polemico. Credo che sia evidente per tutti che dico le cose così come le penso, senza cercare di suscitare polemiche per avere più visibilità, o di auto censurarmi per evitare dei problemi.

Anche i suoi fumetti girano il mondo. In questo film lei cita il suo pericoloso viaggio sul confine tra Turchia e Siria, dove è nato Kobane Calling, «non reportage» sul fronte curdo che ha avuto editori quasi ovunque, se lo aspettava?
Ho notato come tutti abbiano scavato nella propria lingua e nella propria cultura cercando di rendere lo spirito del mio lavoro. Per ricreare l’effetto che le vignette e le battute avevano in italiano, alle volte hanno adottato soluzioni non solo intelligenti, ma addirittura brillanti. Devo ammettere che ne sono stato molto gratificato.