Il mio Beethoven, se vi piace

A colloquio con il grande pianista russo Evgenij Kissin, che il 1. dicembre si esibirà al LAC di Lugano con l’Orchestra della Svizzera italiana, diretto da Vladimir Ashkenazy
/ 28.11.2016
di Enrico Parola

Da Maisky a Gringolts (la scorsa stagione), da Sol Gabetta (che chiuderà la nuova il 1. giugno) alla Buniatishvili, sono tante le stelle che illuminano i concerti dell’Orchestra della Svizzera Italiana. Ma a destare scalpore è stato Evgenij Kissin: saperlo solista, questo giovedì, nel terzo Concerto per pianoforte di Beethoven, ha lasciato la netta percezione di un salto di qualità, di un ampliamento degli orizzonti e delle ambizioni dell’orchestra ticinese. Perché Kissin non è solo uno dei più grandi pianisti viventi: è uno dei più folgoranti talenti ed è stato il più sbalorditivo enfant prodige sbocciato sulla ribalta del concertismo mondiale nell’ultimo mezzo secolo; centellina le sue apparizioni – 40 a stagione, selezionate secondo criteri solo artistici e non dello star business.

«Non sono ambizioso, non ho mai voluto diventare famoso, non ho mai invidiato la carriera di un altro pianista – ecco, il talento di Emil Giles sì, penso sia stato più grande anche di Richter. Ho sempre e solo voluto assecondare la mia indole e il mio desiderio di godere della bellezza della musica. Chi come me ha ricevuto in dono un talento musicale non può non amare la musica». Non è la spocchia di chi è arrivato, Kissin l’ha sempre pensata così: «Non ho mai studiato per preparare una lezione, suonavo perché mi piaceva. C’è stato un periodo, breve, in cui mi ero impigrito; la mia insegnante mi minacciò: se avessi continuato a studiare così male mi avrebbe proibito di suonare il pianoforte e costretto a darmi alla batteria; le risposi che allora avrei suonato così male la batteria da costringerla a riportarmi alla tastiera: per me lo studiare per “arrivare” non aveva senso. Il primo anno suonavo venti minuti al giorno, il secondo un’ora, il terzo quattro».

Poteva permetterselo: così dotato, la carriera era una logica conseguenza. «Il mio primo brano è stata la fuga in la maggiore del secondo libro del Clavicembalo ben temperato di Bach: non la suonavo ma la canticchiavo a memoria, sentendola da mia sorella; avevo 11 mesi, me lo ha raccontato mamma». Sorride ricordando un altro aneddoto confidatogli dalla madre: «Nel nostro condominio il dirimpettaio era un capitano d’artiglieria che si lamentava perché “facevo troppo rumore”; a un certo punto voleva denunciare la mia famiglia perché suonavo di giorno, indizio che non andavo a scuola: era il 1985, avevo 14 anni, a quell’epoca non frequentare la scuola era un reato. Arrivò la polizia e mia mamma dovette esibire un permesso della scuola (la Gnessin, istituto musicale che accoglieva i migliori talenti russi) che mi esentava da alcune lezioni per suonare di più.

Quando comprammo un pianoforte a coda il capitano tornò a lamentarsi per il rumore e chiamò di nuovo la polizia; quando arrivò non c’ero, mio padre spiegò che stavo tenendo il concerto di gala del 27esimo Congresso del partito comunista; il gendarme rispose che quella sarebbe stata l’ultima volta che venivano a disturbare».

Le esibizioni pubbliche iniziarono quando Evgenij aveva 11 anni: «A Mosca, in una sala con 600 posti; dovettero aggiungere delle sedie sul palco, ma credo perché i biglietti erano gratis» sorride. «Mi chiesero se non mi disturbasse la vicinanza del pubblico, al contrario, mi dava la carica. Anche oggi, quando qualcuno mi chiede se quando inizio a suonare dimentico chi mi sta attorno rispondo: che domanda idiota, se vado in un teatro e salgo su un palco è perché so che c’è gente che mi vuole sentire, altrimenti resterei in casa».

Il genio di Kissin esplose l’anno successivo, appena dodicenne: i due Concerti di Chopin eseguiti con la Filarmonica di Mosca in Conservatorio fecero scalpore, i genitori il giorno dopo fecero una gita in campagna, a 50 chilometri dalla capitale, per tenere Evgenij lontano dal troppo clamore suscitato: «Ricordo poco di quella sera: i fiori dopo il primo tempo e la fila di gente che veniva alla fine; uno spettatore mi regalò una macchinina, che mi fece molto piacere: ero pur sempre un bambino». Un bambino un po’ particolare: «Guardandomi ora sì: non giocavo, stavo poco coi coetanei, ero già assorbito dalla musica; ma era la cosa che più mi piaceva, allora mi sentivo normalissimo e mi sembrava la cosa più naturale del mondo».

Non è più un bambino ma un adolescente di 16 anni quando riceve la consacrazione definitiva: Herbert von Karajan, il più grande direttore vivente, ascolta una sua registrazione e lo vuole conoscere. «Avevo avuto il permesso di uscire dalla Russia ed ero a Monaco per una tournée; quando mi dissero che Karajan voleva conoscermi pensavo a uno scherzo. Gli suonai la Fantasia di Chopin: sarà stata la suggestione, il suo carisma, ma non ho mai suonato così bene come quella volta. Alla fine mi avvicinai imbarazzato, lui fece il gesto di mandarmi un bacio e si tolse gli occhiali da sole: aveva gli occhi lucidi. La moglie mi confidò di non averlo mai visto così commosso in trent’anni di matrimonio».

Con Karajan e i Berliner Philharmoniker firmò una memorabile incisione live del primo Concerto di Ciajkovskij, prima di un’infinita serie di collaborazioni con le grandi stelle del firmamento concertistico mondiale. «In generale comunque preferisco il recital ai concerti con l’orchestra o al repertorio da camera, nonostante abbia suonato con dei giganti come Isaac Stern o la Argerich; è che quando sento una melodia o un passaggio meraviglioso che vorrei tanto suonare ma è scritto per un violino o per l’orchestra provo un senso quasi di frustrazione... Mi sono però divertito al Festival di Montpellier a recitare delle poesie prima di un recital, io in varie lingue e poi Gérard Depardieu nella traduzione francese: mi aveva sentito annunciare e spiegare dei bis, fu colpito dal mio modo e dalla mia voce, mi propose di fare qualcosa di più strutturato e così nacque quella serata di musica e poesia».

Fra i direttori ha suonato anche con Vladimir Ashkenazy, che lo accompagnerà giovedì: «Ci siamo incontrati per eseguire i concerti di Prokof’ev n. 2 e 3: il fatto di essere stato un grande pianista lo rende un fantastico accompagnatore di pianisti». Qui sarà il Concerto in do minore di Beethoven, «un autore con cui ho sempre avuto un rapporto complicato: amo la sua musica, ma non mi è mai sembrato di essere riuscito a tradurre questo amore in un’interpretazione adeguata. Perché non basta sentire la musica – quello è sempre necessario, ma basta solo quando si è dei giovani prodigi: bisogna capirla per carpirne il segreto e comunicarlo al pubblico».