Dopo Winterthur e Ginevra, l’Incontro del Teatro svizzero (rencontre-theatre-suisse.ch/it/) arriva per la prima volta nella nostra regione. Dal 24 al 28 maggio la manifestazione va in scena sui palchi del LAC e del Teatro Foce di Lugano, del Teatro Sociale di Bellinzona e del Cinema Teatro di Chiasso. Otto gli spettacoli scelti per una rassegna creata quattro anni fa con l’intento di rappresentare tutta la ricchezza e la diversità del nostro teatro, dando la possibilità al pubblico di assistere a spettacoli provenienti sia dal teatro indipendente sia da quello istituzionale e nelle diverse lingue nazionali.
Tra i 220 spettacoli visionati da una commissione la scelta è caduta anche su due produzioni ticinesi: Purgatorio di LuganolnScena per la regia di Carmelo Rifici e Twilight di Trickster P, realizzato da Cristina Galbiati e Ilija Luginbühl, tra i vincitori dei prestigiosi Premi svizzeri di teatro 2017. L’idea di istituire dei premi nazionali per la letteratura, l’arte e il design, il cinema, la musica, la danza e il teatro, lo ricordiamo, si è sviluppata a partire dal 2012 sulla scia della nuova legge per la promozione della cultura. Distinzioni con le quali la Confederazione intende onorare l’eccellenza svizzera e farla conoscere a un pubblico più ampio.
Trickster P: dal teatro assente al nuovo spettatore
Sono ormai in tanti a dichiarare che il teatro è morto. Come se la sua storia avesse compiuto il suo lungo ciclo esaurendo la forza della creatività. Assistiamo a tante, spesso troppe soluzioni alternative per entrare nel limbo del futuribile, dell’originalità a tutti i costi, dell’uscita dai paradigmi tradizionali.
La formula adottata dalla compagnia Trickster-p di Cristina Galbiati e Ilija Lungibühl è nata anticipando altre formule, coscienti del fatto che il nostro teatro indipendente, in un certo senso è prigioniero della lingua italiana e, di conseguenza, non riesce a valicare le Alpi. Questo non ha impedito alla compagnia Trickster di individuare la propria via. Come ci racconta Cristina Galbiati: «Io e Ilija ci siamo conosciuti alla Scuola di Verscio che ho finito due anni prima di lui. Eravamo già una coppia nella vita ma si trattava di capire se continuare insieme anche a livello professionale. Avevo già l’idea di creare un mio progetto ma la vera scelta l’ha dovuta fare Ilija. Io ho avuto due anni di vantaggio per capirlo. Nel frattempo sono stata in India e a Bruxelles per approfondire la conoscenza del teatro di gruppo, del teatro antropologico, del Katakali. Al ritorno avevo creato Cipollino, il mio primo spettacolo, una narrazione seduta su una sedia: il tentativo di trovare un linguaggio che mi appartenesse. Quando Ilija ha concluso la scuola abbiamo deciso di lanciarci nei primi progetti.
Vi siete ispirati al «terzo teatro», all’animazione di piazza, poi siete tornati in sala. Quando avete deciso di voler creare qualcosa di diverso?
Ci sono stati due momenti chiave. Il primo ha coinciso con l’acquisto di una casa a Novazzano, uno spazio tutto nostro che ha stimolato il pensiero verso il futuro. Il secondo è stato la creazione di H.G. con la decisione di rinunciare agli attori. Una scelta quasi obbligata: eravamo in due per fare tutto e un giorno Ilija ha detto: «È troppo, dobbiamo rinunciare a qualcosa. Rinunciamo agli attori!» Per me è stato come tagliarmi una mano! Ma la sfida era troppo interessante e così è nato H.G. (Hänsel e Gretel), un lavoro che ha girato molto. È stato un azzardo perché a quel tempo non sapevamo quanto poteva funzionare l’idea. Ma ci occorreva una soluzione che ci facesse uscire dallo stretto ambito ticinese con una struttura che permettesse di girare con una certa facilità. L’esperienza fatta con Rapsodia per i giganti, dove recitavamo sui trampoli, era quella di uno spettacolo molto agile grazie al quale siamo stati in Asia, in America Latina… e per noi viaggio è sempre stato il compromesso – abbiamo una base qui ma non rinunciamo a una visione più ampia.
Oggi si riflette molto sul concetto che il teatro abbia concluso il suo ciclo. Pare che con il vostro modo di far spettacolo anticipiate la fine della scena tradizionale: è un caso?
Dapprima sul teatro: è un momento in cui dare una definizione è molto difficile. Qualcuno ha detto che ormai la parola «teatro» dovrebbe essere usata solo in relazione all’edificio perché non corrisponde più a una disciplina, oggi troppo variegata e spuria. Per noi è sempre stato più importante parlare col pubblico che rientrare in una categoria. Non ci chiediamo mai se ciò che facciamo è originale, se è teatro o altro, ma se riesce a comunicare.
Non vi siete mai posti la domanda se quanto proponete possa avere dei limiti?
Sì. E sono molto reali e legati alla praticità dei progetti. Mi piacerebbe realizzarli più in grande ma non è possibile, per mezzi e contesti. Ma è questo limite che ci permette di trovare soluzioni creative diverse. Un rapporto di amore e odio che però ci fa progredire.
Il vostro prossimo progetto, Nettels, vuole riportare la vostra poetica a significati più profondi e diffusi. A differenza di Twilight che ha diviso il pubblico.
Era l’obiettivo di quello spettacolo, un lavoro nato per essere più radicale e creare una relazione di rigidità o rifiuto. Con Nettels vogliamo tornare al lavoro sul singolo spettatore. Cerchiamo risposte su come possiamo proseguire la nostra ricerca su uno spazio evocativo in un rapporto con la sensorialità. In H.&G. c’era una voce che guidava. In B. c’era il suono di un campanello che invitava a proseguire. Ora ci stiamo chiedendo che cosa vuol dire «guidare» lo spettatore. L’idea è quella di esplorare.
Vincere un premio è un momento importante, corrisponde a un punto d’arrivo ma anche a un momento di rilancio…
Ilija lo vive come una sorta di coronamento. Io lo percepisco in un modo più conflittuale: da un lato con la grande soddisfazione di veder riconosciuti i nostri sforzi. D’altro canto mi chiedo quale sarà il prossimo passo. Spero di poter continuare nella ricerca cercando di non perdere ciò che è diventato parte della nostra identità artistica.