«La moglie di Molcho morì alle quattro del mattino, e con tutto se stesso Molcho si sforzò di individuare il momento preciso di quella morte così da inciderlo dentro di sé, perché lui voleva ricordare».
Il toccante incipit di Cinque stagioni, a pochi giorni dalla scomparsa di Abraham B. Yehoshua e dalla sua sepoltura al cimitero di Ein Carmel, dove riposa anche la moglie Ika, ha il sapore amaro della predizione. Come se, armato del suo acuto, lucido e curioso occhio di scrittore Yehoshua avesse già immaginato quella che sarebbe stata la sua morte, avvenuta all’Ichilov Hospital di Tel Aviv la notte del 14 giugno. Questa morte, nonostante per molti versi annunciata (Yehoshua era nato nel 1936 a Gerusalemme e da qualche tempo soffriva di una grave malattia), porta con sé una doppia dimensione, personale e allo stesso tempo epocale, se pensiamo che lo scrittore, considerato fra i più importanti della storia di Israele dalla fondazione dello Stato nel 1948, ha vissuto la Guerra di indipendenza e l’assedio di Gerusalemme, accompagnando Israele con la sua produzione letteraria e il suo impegno politico nel corso di 85 anni. Il suo attivismo ideologico non era mai scemato anche se, come aveva dichiarato, «certi argomenti ho preferito consegnarli alle generazioni successive».
Da quello che aveva definito come «il desiderio universale di creare delle storie e comprendere l’animo umano», sono nati libri importanti per la produzione del Novecento. La nota surreale che ha reso originali i racconti iniziali si riverbera fin dentro i primi romanzi (ad es. L’amante) per poi cedere il posto a un senso di epicità che molti sono concordi nel vedere culminare ne Il signor Mani, considerato un capolavoro della narrativa contemporanea, o nella profondità e nell’ironia con cui vengono narrate le ossessioni di Rivlin nelle quasi 600 pagine della Sposa liberata. I libri più recenti si sono in qualche misura ridotti, facendosi più intimi. Dell’autunno scorso è La figlia unica, in cui si narra una vicenda italiana che prende spunto da quella di Sarah Parenzo, collaboratrice di «Azione» (qui il link all'articolo), da molti anni residente a Tel Aviv e che su Yehoshua ha svolto un dottorato di ricerca che li ha fatti incontrare.
Sarah, letteratura e politica erano una cosa sola per Yehoshua?
Yehoshua non ha mai potuto separare la letteratura dalla politica e dalla società israeliane, talvolta anche a scapito della profondità dei personaggi, e per questo le sue opere sono colme di metafore attraverso le quali lo scrittore esprimeva il suo impegno e la sua lotta per garantire allo stato ebraico un futuro etico. Quello dell’etica è un argomento che gli stava a cuore e al quale ha dedicato anche un saggio, che verrà ristampato a breve da Einaudi.
Yehoshua è rimasto attivo fino alla fine?
Sì, perché anche stanco e molto malato rimaneva sostanzialmente un ottimista. Credo che una delle definizioni più azzeccate per descrivere la sua attitudine sia quella coniata dal professor Avner Holtzman dell’Università di Tel Aviv, che lo definì un mussachnìk, ovvero un meccanico di macchine da officina. Yehoshua infatti ha cercato di aggiustare la realtà fino alla fine, tanto nel pubblico quanto nel privato.
Si sentiva responsabile della sua nazione?
Molto, come dimostra la sua produzione saggistica, sulla separazione tra religione e nazionalità, sulla Shoah e sulla diaspora. Seppure facilmente confutabile in ambito accademico, poiché non supportata da un apparato teorico sufficientemente solido, questa produzione va compresa proprio a fronte del suo autentico desiderio e della sua fede incrollabile nella necessità per il popolo ebraico del raggiungimento di una dimensione di normalità all’interno di delimitati confini territoriali che implicano sovranità, sinonimo di responsabilità.
Nell’ultimo anno tuttavia, Yehoshua, stanco e malato, non ha potuto non ammettere con preoccupazione che più di qualcosa del progetto sionista cui ha dedicato con passione tutta la vita sta avendo dei cedimenti e che se gli israeliani ebrei non faranno qualcosa nei termini di un cambiamento di coscienze, il futuro potrebbe rivelarsi cupo dal punto di vista politico, sociale ed economico.
Forse un concetto ebraico altrettanto adatto per definire questa sua inclinazione è quello del tikkùn, la riparazione, un’espressione che evoca connotazioni mistico cabalistiche o chassidiche che ben si sposano con le calde radici sefardite e tradizionaliste di Yehoshua che pure amava definirsi laico come i colleghi ashkenaziti con cui era in competizione.
Recentemente la sua posizione riguardo a una possibile soluzione per Israele era cambiata…
Che egli fosse un uomo con lo sguardo orientato al futuro lo dimostra il pragmatismo che negli ultimi anni lo aveva coraggiosamente condotto ad abdicare la soluzione dei due Stati, rivelatasi anche geograficamente inapplicabile, per adottare la proposta di uno Stato unico. Da lui declamata e illustrata ampiamente in diversi articoli e saggi, ma ancora osteggiata dalla maggior parte degli esponenti della cultura e della politica, la promozione dello stato unico per due popoli è stata la “missione” che lo ha maggiormente impegnato negli ultimi anni, influenzandone anche la produzione letteraria più recente (Il tunnel, La figlia unica).
Come viene recepita recepita la sua posizione oggi in Israele?
Il legato di Yehoshua a procedere verso una realtà di uguaglianza e rispetto reciproco sotto un unico Stato, concedendo la cittadinanza e in generale i diritti ai palestinesi, è un’eredità che Israele non sembra saper cogliere. Come scriveva un lettore del quotidiano «Haaretz» stamattina, non è escluso che paradossalmente l’auspicata normalizzazione del popolo ebraico potrà concretizzarsi nei prossimi anni solo in quella diaspora tanto criticata dallo scrittore che soleva inveire contro la «fissazione malata degli ebrei di dimorare come ospiti negli alberghi altrui».
La vostra collaborazione e la vostra amicizia erano molto intense e profonde.
La morte di Yehoshua rappresenta per me un lutto molto significativo, una perdita densa di implicazioni che dovrò elaborare emotivamente prima di poter affrontare l’argomento dal punto di vista personale. Il rapporto con lui è stato un dono faticoso ma estremamente prezioso offertomi inaspettatamente dalla vita. Per questo, come Molcho di Cinque Stagioni, anch’io desidero fermamente ricordare questa morte per me così dolorosa affinché resti impressa nella mia mente e nel mio cuore, accompagnandomi con il suo prezioso lascito per gli anni a venire.