Il 4 agosto 1923 a Cavergno nasceva Plinio Martini, «autore universale», «indagatore dell’animo umano», cantore della natura senza mai idealizzarla, narratore di un mondo duro – quello alpestre – e fervente credente della forza virtuosa insita in una comunità coesa la cui anima non è stata intaccata dai soldi. Così lo ricorda Matteo Ferrari, ricercatore, curatore insieme a Mattia Pini dell’edizione commentata de Il Fondo del Sacco (Casagrande, 2017), che per il suo dottorato di filologia italiana sta lavorando a un’edizione critica in cui mette a confronto le otto stesure de Il fondo del sacco ora uscito con una nuova copertina (nell’immagine a colori: Giovanni Giacometti, Autoritratto, 1899).
Se in poche parole dovesse tratteggiare la figura di Plinio Martini, quali sceglierebbe?
È uno scrittore che racconta un Ticino che non c’è più, ma lo fa con una carica emotiva e una capacità stilistica tali che ne fanno un autore universale. A 44 anni dalla scomparsa i suoi testi continuano a parlare e questo attiene soprattutto alla qualità letteraria delle sue pagina. Plinio Martini resta attuale anche se il suo mondo alpestre è sempre più lontano. Un mondo che in tanti hanno provato a raccontare ma lui – nel farlo – ha lasciato il segno.
Per festeggiare l’anniversario sono uscite una raccolta di inediti e una riedizione de Il Fondo del sacco. Le sue opere interessano ancora?
È uno dei maggiori scrittori svizzeri di lingua italiana del secondo Novecento e la fortuna dell’autore, intesa soprattutto come interesse dei lettori, non si è mai sopita. Le sue opere non solo vengono ancora ristampate, ma si è andato pian piano a cercare anche l’inedito, nel caso dei racconti, oppure l’edito di nicchia di tutti gli articoli di giornale che – sparpagliati su molte sedi – sono stati ritrovati e raccolti. Questo non lo si fa per qualsiasi autore. Vale la pena ricordare il lavoro dello studioso Ilario Domenighetti che negli anni ’80 è stato il primo a capire l’importanza degli scritti civili dispersi, scritti che ha raccolto, trascritto e contestualizzato per poi pubblicarli in Nessuno ha pregato per noi (Dadò, 1999).
Il suo testo di riferimento, quello su cui ha lavorato di più, è Il Fondo del Sacco. Cosa pensa della nuova copertina?
Come ho visto questo autoritratto di Giovanni Giacometti – che sembra guardarti negli occhi – mi è venuta in mente la modalità narrativa del romanzo. Sin dalla prima pagina il narratore ci parla di un «tu» e sembra che quel «tu» sia il lettore. Non si dice chi sia se non quando ci vengono dati degli indizi qua e là per capire che Gori in realtà si rivolge a un compaesano. In ogni caso questa scelta narrativa ha un effetto molto forte sul lettore che diventa il depositario delle confessioni di un uomo. L’uomo dell’autoritratto che guarda diretto «in camera», guarda negli occhi il lettore e adotta lo stesso approccio frontale del racconto. Tra l’altro – il professor Alessandro Martini – mi ha fatto notare che sullo sfondo del dipinto c’è un corteo che sta passando, probabilmente si tratta di un funerale. Dunque in primo piano abbiamo il protagonista, in secondo il paese con la sua vita, proprio come nell’opera di Plinio Martini.
Soffermiamoci per un attimo sugli inediti raccolti nel volume Com’era bello di giugno a Roseto. Possiamo subito dire che il primo ha una sua profonda liricità.
È vero, il primo è un testo stupefacente; Plinio Martini l’ha scritto ventenne e come sappiamo abbandonerà presto la prosa per esordire da poeta ma qui riconosciamo una mano già abbastanza sicura. A Cevio qualche settimana fa c’è stata una bella presentazione con un pubblico gremito e so che il libro sta vendendo bene. Plinio Martini è una sorta di marchio e forse questi racconti sono gli ultimi… c’era da aspettarsi questa grande curiosità.
Proviamo a descrivere e a riassumere i vari passaggi della scrittura di Plinio Martini a partire dalla poesia fino agli scritti civili?
Possiamo dire che dalla fine degli anni ’40 e fino alla vigilia della scomparsa ci sono stati momenti e fasi di scrittura diversi. Penso però di poter dire che anche laddove pare esserci stato un cambiamento di stile, a prevalere, a dare una forte impronta sono stati gli elementi di fedeltà che riscontriamo nei temi da lui scelti e trattati. Plinio Martini ha scritto opere dalle quali ha poi preso le distanze alla fine della sua vita lasciando intendere che avrebbe salvato i suoi due romanzi e una parte della produzione ma le poesie – ad esempio – le sentiva molto lontane da sé. Gli esordi comunque sono stati quelli poetici, quando si rivela al pubblico Plinio Martini lo fa in versi e in questo la tradizione letteraria italiana – che nel Novecento continuava a vedere nella poesia la via d’accesso privilegiata per confrontarsi – ha giocato un ruolo importante.
C’è anche un anno in cui non scrive niente…
Sì, è vero, nel suo percorso letterario ci sono state anche delle battute d’arresto. Una importante dopo la seconda raccolta che aveva avuto una cattiva ricezione. Definita «lasciva», era stata criticata in chiave morale e la religione – soprattutto nella sua declinazione morale – era importante per Plinio Martini che poi si cimenta nella poesia a carattere religioso-biblico, ma non riesce a pubblicare. Seguono gli anni del grande cambiamento del territorio e lui prende la penna e sui giornali apre la stagione degli scritti civili. Da qui l’idea di scrivere un romanzo che sia anche testimonianza di quanto sta accadendo. Ci sono alcune pagine di grande lucidità, per esempio quando parla delle dighe e delle acque che vengono rubate, «ci hanno sfruttato come una colonia», dice. Tra Il fondo del sacco (1970) e il Requiem per zia Domenica (1976) Plinio Martini scrive ancora alcune poesie. Non c’è mai una via, ma più vie. Plinio Martini è quello che interviene sui giornali, che scrive poesie, prose d’invenzione e se – in alcuni periodi – una voce sembra prevalere sulle altre, in verità non accade. La sua voce è la somma di tutte queste tenute insieme e coese dalla fedeltà ai temi a lui cari.
Approfondiamo il tema della fedeltà tematica che mi sembra particolarmente importante.
Io ho studiato soprattuto Il fondo del sacco, Ilario Domenighetti Il Requiem per zia Domenica, il professore Alessandro Martini si è concentrato su gran parte degli studi generali, dalla poesia ai racconti. Ma – come dicevo – a dispetto degli anni e dei generi differenti, in Plinio Martini permane la grande fedeltà a sé stesso, alla natura e alla sua valle. Nei suoi scritti civili si percepisce una sensibilità che oggi potremmo definire ecologista. C’è un’attenzione al territorio, all’armonia tra uomo e natura, così come nel romanzo, ed è questo a far sì che i suoi testi siano letti ancora oggi.
Il fondo del sacco ci regala, dunque, una grande testimonianza storica?
C’è naturalmente una minima trama di invenzione: la storia d’amore, il personaggio alle prese con sé stesso, tutta la riflessione esistenziale sulla vita nel momento in cui si profila il capolinea. Elementi di invenzione inseriti in uno sfondo storico preciso che si fa testimonianza dell’epoca con tutti i suoi cambiamenti.
Ma c’è anche una capacità di parlare all’uomo?
Plinio Martini aveva la stoffa del narratore ed era un profondo indagatore dell’animo umano. Era sensibile al suo mondo alpestre senza idealizzarlo mai, anzi, ne raccontava tutta l’asprezza, diceva quanto fosse duro. Se c’è un’idealizzazione è nella sua idea di una comunità virtuosa e coesa. «I soldi non ci avevano ancora inquinato l’anima» diceva, nutriva l’idea, l’esaltazione di un’armonia civile e, al contempo, muoveva una critica abbastanza forte alla società dei consumi colta sul nascere.
Abbiamo detto poco del Requiem…
È un bellissimo romanzo, in certi punti molto ironico, quasi sarcastico, ma chiede un pedaggio in entrata visto lo stile non scontato connotato da frasi lunghissime che funzionano a cascata pescando da tutti i registri. Richiede una lettura esigente. I critici lo considerano il capolavoro di Plinio Martini, mentre per i lettori il capolavoro è Il Fondo del sacco. C’è un aspetto che mi ha sempre colpito e mi fa apprezzare questo autore in modo particolare: il cambio di stile da un testo all’altro dando sempre il meglio di sé.
Se dovessimo tornare sul perché oggi i suoi testi hanno ancora tanta fortuna, cosa possiamo aggiungere?
Penso alla Pozza del Felice che pure ha avuto questa fortuna e come Il fondo è stato tradotto in tedesco. Anche Arno Camenisch in Sez Ner parla dell’alpeggio. Sono tre modi diversi di raccontare, ognuno figlio della sua epoca. Giuseppe Zoppi ne Il libro dell’alpe ci dice che la vita era idilliaca. Martini dice che era una vitaccia ma ciò che importa è vivere assieme, avere un senso di comunità. Sono testi che intercettano il fascino per l’essenzialità – una vita semplice ridotta ai minimi termini; colgono il sentimento che c’è nell’aria.