Arte e cinema: un binomio che evoca molteplici espressioni artistiche, dal cinema sperimentale di Hans Richter fino ai film d’arte e a quelli storici. Negli ultimi anni sono molti i film ispirati al grande capitolo dell’arte trafugata e bandita dal regime nazionalsocialista.
Fra i più recenti, Monuments Men (2014), di e con George Clooney, che riprende la tradizione delle grandi pellicole di guerra degli anni 60, per raccontare con toni scanzonati la storia della task force al servizio degli eserciti alleati incaricata di recuperare migliaia di capolavori d’arte trafugati dai nazisti, poiché il patrimonio artistico e culturale ci definisce come esseri umani, e l’aveva capito anche Hitler, che tentava di cancellare certa arte.
Perché questa ossessione? Lo racconta il recente documentario intitolato Hitler contro Picasso e gli altri. L’ossessione nazista per l’arte firmato da Claudio Poli. Hitler aveva bollato come arte degenerata le opere dei movimenti d’avanguardia del tempo: opere d’arte troppo caotiche e troppo libere, in definitiva troppo politiche per rispondere ai valori della propaganda di regime. Sequestrarle per distruggerle, o meglio per rivenderle e ricavarne enormi ricchezze, o ancora per destinarle al museo che sognava di aprire a Linz. Il film si concentra sul processo ancora in parte irrisolto di restituzione delle opere ai loro legittimi proprietari, ripercorrendo la storia di quattro grandi mostre recenti, fra le quali il doppio progetto allestito a Berna e a Bonn sulla collezione di Hildebrand Gurlitt. In altri casi è la storia del singolo individuo a diventare paradigma storico, come quella di Maria Altmann, cittadina austriaca fuggita negli Stati Uniti che intenta una causa alla sua patria d’origine per riottenere una tela di Klimt sottratta alla sua famiglia dai nazisti. The Woman in Gold (2015) vede una elegante e inappuntabile interpretazione di Helen Mirren nei panni della determinata Altmann che riesce a ottenere il riconoscimento del torto subito.
Si situa fra il documentario e il film d’arte il lungometraggio che si ispira alla vita e alle opere di uno degli artisti più amati e misteriosi della storia dell’arte. Michelangelo Merisi è il protagonista di Caravaggio, l’anima e il sangue realizzata da una star internazionale del documentario come il messicano Jesus Garcés Lambert, che ricorre alle più moderne tecnologie di alta definizione per permetterci un viaggio sensoriale nei dipinti dell’artista nato a Milano nel 1571. Una voce narrante fuori campo, un montaggio che accosta stati emotivi e scene fotografiche e simboliche in un contesto contemporaneo, la consulenza scientifica di esperti di Caravaggio, ne fanno un’opera visivamente raffinata che evita il topos dell’artista maledetto e le movenze pedanti della lezione di storia dell’arte.
A dire il vero un’operazione originale sul piano stilistico e dei contenuti l’aveva già compiuta Derek Jarman nel 1986, quando, già ammalato di Aids, realizza il suo Caravaggio. Una pellicola che ha lasciato il segno, con una sequenza di scene tutte girate in interni che diventano dei veri «tableaux vivants», sospesi fra essenzialità elisabettiana e sensualità barocca, in cui prende vita il drammatico personaggio di Caravaggio, affamato di esistenza, come un «ragazzo di vita» di pasoliniana memoria. Jarman, lui stesso pittore, intreccia la sua biografia con quella dell’artista, facendone un suo contemporaneo.
E uno dei pittori più cinematografici dopo Caravaggio, è certamente Rembrandt, al quale Peter Greenaway, il regista che più di ogni altro ha indagato i rapporti fra immagine cinematografica e immagine pittorica, lui stesso pittore e studioso di arte, ha dedicato nel 2007 un singolare film che racconta la genesi di uno dei suoi capolavori, La Ronda di notte. In Rembrandt, j’accuse… Greenaway cerca di capire perché quel dipinto, pieno di dettagli misteriosi, coincida anche con l’inizio del declino. La tesi è che Rembrandt, dipingendo questo ritratto di gruppo, scopra la cospirazione orchestrata dai committenti e trasformi il dipinto in un atto d’accusa.
Peter Greenaway lo ritroviamo nel documentario Il Curioso Mondo di Hieronymus Bosch che nel 2016 ha chiuso l’anno di celebrazioni per i 500 anni dalla morte del maestro olandese: lungometraggio che racconta le scoperte a cui ha portato il progetto di ricerca e restauro delle sue opere in vista della grande mostra che ha riunito la quasi totalità dei suoi dipinti nella sua città natale. Fra gli «assenti» il celebre Giardino delle delizie, capolavoro di Bosch, conservato al Prado che era stato qualche anno fa la fonte di ispirazione per il regista polacco Lech Majewski. Il giardino delle delizie (2004) è girato a Venezia e segue una coppia che vive il proprio amore condannato dall’imminente morte di lei, intenta a ricreare con il proprio corpo alcuni dettagli tratti dal complesso e grandioso trittico pittorico, ricreando un proprio personale Eden.
Il miglior film d’animazione europeo 2017 è stato il sorprendente Loving Vincent, scritto e diretto da una regista (e pittrice) polacca Dorota Kobiela insieme all’inglese Hugh Welchman: si tratta infatti del primo lungometraggio interamente dipinto su tela, rielaborando oltre un migliaio di dipinti del maestro olandese realizzati da 125 pittori provenienti da tutto il mondo per ricostruire le ultime settimane di vita del maestro olandese. Opera che ha conquistato il pubblico, a giudicare dagli incassi, ma che non ha convinto del tutto la critica; il film rischia di restare un ardito e impressionante, ma sterile esercizio di stile, che ben poco aggiunge alla comprensione dell’opera del pittore.
Ceci n’est pas un tableau, infine, è il titolo magrittiano scelto per l’originale cortometraggio d’animazione firmato da Jacob Berger, regista ginevrino e figlio del celebre scrittore e critico d’arte inglese John Berger. Un film che esplora una nuova modalità di raccontare l’arte, ricreando un museo immaginario in cui rileggere i quadri, fra analisi e poesia, con l’intento dichiarato di riavvicinare il pubblico alla grande arte svizzera – da Hodler a Vallotton a Giacometti.