Il gesto del tempo

Unrueh, il secondo lungometraggio del regista Cyril Schäublin premiato all’ultima Berlinale, è uscito nelle sale della Svizzera interna
/ 05.12.2022
di Tommaso Donati

Dopo Those who are fine (2017), ambientato in una Zurigo urbana e contemporanea, Schäublin decide di incentrare la sua nuova minimalista narrazione indietro nel tempo, nel 1877, all’interno di una città orologiera nel nord-ovest della Svizzera. Il cineasta riesce a ricreare un universo ispirato alla storia della sua famiglia, in particolare a quella di sua nonna, che lavorò in una fabbrica di orologi in quella stessa regione, nel villaggio di St-Imier, dove realizzava il cuore meccanico dell’orologio, il bilanciere («Unruh»). Si ripercorrono momenti della quotidianità all’interno della fabbrica, dove si svolge un lavoro particolare ma di estrema importanza, sempre in bilico tra sicurezza e precarietà, dove tutto è concentrato su dettagli minuziosi e minuscoli. Presto, nel film, si scopre che quel luogo è inoltre diventato all’epoca l’epicentro politico del movimento anarchico con molte diramazioni a livello internazionale. Nel villaggio, tutto gira intorno a questo movimento, come anche i protagonisti, che entrano ed escono di scena in un moto continuo, come Pyotr Kropotkin (Alexei Evstratov), un misterioso geografo russo che per il suo lavoro si reca in quel microcosmo e si lascia affascinare dalla sua politica e da una giovane donna, Josephine (Clara Gostynski), che si occupa proprio della fabbricazione del bilanciere. Affiora così anche la tematica dell’amore, quello visibile, ma anche quello che non si vede, tra le cose e le persone.

Questo film, prodotto dalla Seeland Filmproduktion e co-prodotto anche dalla società ticinese Cinédokke (Michela Pini), non ha bisogno però di svelare la sua trama, perché la sua narrazione è piena di divagazioni, cambia percorsi; le storie interne appaiono e poi scompaiono, come la giovane coppia che si incammina in una passeggiata nel bosco e sembra non far ritorno nel villaggio, di loro rimarrà solo un orologio appeso a un albero (come nell’immagine che mostra un dettaglio della locandina), a quella natura che tanto affascina l’autore.

Dalla prima scena ci si trova immersi in questa cittadina inquadrata sempre in modo originale, giocando con le proporzioni e con il passaggio di figure e comparse che lo rendono vivido. Gli alberi e i suoi rami si rivelano sempre all’interno della scena, nei suoi contorni, dove si muovono leggermente nel vento, in scene statiche che aspettano solo i protagonisti entrare, recitare e uscire, come in un palco teatrale o in un set fotografico.

Un film essenziale, dove domina una luce velata piena di riflessi d’ombra delicati che si espandono sui muri pallidi. Un mondo dove tutto è sbiadito, che Schäublin ha ricostruito per raccontare uno spaccato della storia del suo paese, alla sua maniera, sfruttandola per mostrare prima di tutto delle immagini e delle sensazioni, che sono guidate da dialoghi e conversazioni intelligenti che sfociano spesso nell’assurdo. Un film dove le inquadrature si susseguono come le parole di un libro, lasciando una meraviglia e una sorpresa nello spettatore. Il cinema ridiventa puro, riaccoglie un sapore primitivo, l’immagine fa scorrere la storia, lasciando spazio anche a una spontaneità nella recitazione, ad attori non professionisti, spesso amici del cineasta, accolti qui, per creare un distacco con quel cinema storico convenzionale.

Il regista e il suo fedele fotografo, Silvan Hillmann sembrano lavorare in simbiosi per creare immagini uniche, un cinema non solo estetico, ma anche politico. Riuscire ad abbinare questi due elementi non è mai stato banale. Schäublin ci riesce con una leggerezza e una poesia che entra subito nello spettatore. Un manifesto anarchico di un cinema libero ma composto, che servirà ad aprire nuove strade. Un cinema per resistere, che è sempre in una fase di scoperta, e spesso si trasforma in una commedia sognatrice. Unrueh è ambientato nel passato ma nasconde in sé un’atmosfera e dei personaggi che sembrano essere arrivati dal futuro, che porta a una riflessione sul tempo, quello reale e irreale. Non a caso questo villaggio, purché sia piccolo, è diviso in quattro fusi orari diversi, rispecchiando un’ossessione e una sperimentazione del tempo.

Il tempo nel film è scandito invece attraverso i gesti e gli sguardi degli attori, che rivelano con chiarezza pian piano l’anima di quel luogo. Ma anche dai meccanismi dell’orologio, che vengono perpetuamente assemblati, che danno un ritmo al montaggio, che si incastra sempre alla perfezione, a quell’unica possibilità, ovvia, che fa dimenticare le infinite vie che poteva prendere. Un montaggio che non termina mai, perché Unrueh rimane nella mente dello spettatore, che lo smonterà di nuovo all’infinito.