Aveva vari soprannomi, all’epoca era appena diventato Ziggy Stardust, di lì a poco sarebbero nati il Duca Bianco e «l’uomo che cadde sulla Terra». Era nato in Inghilterra, ma davvero era caduto sulla Terra per cambiare – e a più riprese – il volto non solo della musica, bensì addirittura del famoso immaginario collettivo. È il 1972 e David Bowie è in tournée nel suo Paese per promuovere l’album The Man Who Sold the World, proprio quando il fotografo giapponese Masayoshi Sukita si aggira per l’Inghilterra per portare davanti al suo obiettivo un’altra star britannica, Marc Bolan, che con i suoi T. Rex sta riscuotendo un incredibile successo. Bolan, il primo a presentarsi con scialli di piume, lustrini e cilindro, diventa profeta di quel glam rock (da glamour) su cui Bowie punterà per ri/crearsi personaggi e pagine nuove della carriera, atmosfere musiche e mondi ogni volta diversi.
Sukita ha un’attrazione per la musica rock: è stato a Woodstock, ha fotografato Jimi Hendrix pochi mesi prima della sua tragica scomparsa. Ha avuto esperienze nel campo nella moda, ma il suo primo maestro, un oscuro artigiano di Osaka, era un appassionato di «fotografia pura», quella che in Occidente chiamiamo «artistica» e che ha solide tradizioni in Giappone. Bowie si gode un successo arrivato dopo anni e anni di tentativi, di formazioni scioltesi come neve al sole o per dissapori dopo i primi successi (leggi: guadagni). Da quando ha imparato a suonare il sax, tuttavia, egli sa che il suo destino è quello del solista, dell’artista multiforme e dotato di sorprendente creatività.
È la sua curiosità ad arricchire il suo già straordinario talento musicale. Un esempio? La vigilia di quella che diventerà «la trilogia berlinese», Bowie è in Germania per disintossicarsi: è un pluritossicodipendente bisognoso di cure che però s’informa sulla musica del Paese che lo ha accolto e scopre così il «krautrock», termine piuttosto spregiativo coniato dalla stampa USA per riferirsi ai gruppi tedeschi attivi negli anni 70 del secolo scorso, vuoi di rock progressivo o addirittura per la musica elettronica di Karlheinz Stockhausen… Dal canto suo, Sukita sa che deve conoscere quell’istrione: «La prima volta che ho visto Bowie sul palco, accanto a Lou Reed, ho capito che era diverso da tutti gli altri cantanti. C’era qualcosa in lui che dovevo per forza fotografare».
Da quel lontano 1972, Bowie e Sukita si sono rincorsi nei quattro angoli del mondo e una selezione di quell’enorme archivio costituito negli anni dal fotografo nipponico è approdata adesso nelle sale della Galleria luganese [dip] contemporary art. Aperto nell’ottobre scorso con una personale di Melik Ohanian (Prix Marcel Duchamp 2015 e Leone d’Oro alla 56. Biennale di Venezia), lo spazio diretto da Michela Negrini si propone di creare un forum innovativo per l’arte contemporanea e nell’attuale allestimento curato da ThinkDesign (agenzia di eventi e comunicazione di Lugano) ci presenta, se possibile, un David Bowie inedito.
Non mancano certo né il rock ’n roll animal o la celeberrima copertina dell’album Heroes (due colori per gli occhi del cantante), ma c’è una galleria di personaggi che Bowie ha interpretato solo per il suo amico Masayoshi oppure ha immediatamente abbandonato. Sukita confessa che il suo lavoro è stato parecchio aiutato dall’attitudine di Bowie: «Non si limitava a creare un personaggio, ma diventava quel personaggio e così era più facile ritrarlo». La solida amicizia nata tra i due ha poi portato ad alcuni click molto intimi, con un Bowie finalmente libero di non dover apparire.
Immediatamente dopo la chiusura della mostra, la galleria proporrà un altro omaggio alla star prematuramente scomparsa con le cinque sessioni fotografiche (Aladdin Sane, Lodger, Scary Monsters, L’uomo che cadde sulla terra e Ziggy Stardust) realizzate con Bowie tra il 1972 e il 1980 dall’artista britannico Brian Duffy.