Classe 1965, nato a Zurigo, critico cinematografico, Giona Nazzaro dal 2021 è il direttore artistico del Locarno Film Festival che per la sua 75esima edizione ci aspetta dal vivo in Piazza Grande e dintorni dal 3 al 13 agosto. Una vita nel cinema, Giona Nazzaro prima di approdarvi ha avuto un altro grande amore negli anni della sua formazione ed è quello per la letteratura, tedesca e inglese in particolare «L’idea di dedicarmi a un percorso di studi fatto di libri, di note a piè di pagina, di dettagli filologici, mi intrigava molto così come l’idea di sprofondare nei libri. Poi però c’era il cinema e il cinema è sempre stato un universo che mi ha affascinato con la sua estrema diversità. La letteratura mi imponeva un percorso, il cinema, invece, era aperto, poteva permettermi di dialogare contemporaneamente con Ozu e Rossellini, John Ford e Howard Hawks. Per questo, al momento di decidere, ho preso la strada del cinema». Il programma della nuova edizione è stato presentato il 6 luglio scorso (tutte le informazioni sono su www.locarnofestival.ch) noi vi raccontiamo lo spirito e la visione del direttore artistico.
Che rapporto hanno cinema e letteratura?
Letteratura e cinema sono strettamente legati. Il romanzo è stato l’epica del XVIII secolo, il cinema lo è stato del XX secolo. Sono le forme espressive che hanno veicolato il farsi della coscienza di un luogo; il romanzo di quel macro-continente che chiamiamo Europa e il cinema della modernità stessa. Entrambe le forme espressive si sono poste seriamente il problema di come documentare le trasformazioni spirituali dei cittadini del mondo. I fatti della politica, in fondo, sono fatti spirituali anche quando diventano abbastanza orrendi e inaccettabili. Sono delle vere e proprie catastrofi spirituali. Se poi posso permettermi un detour spudoratamente autobiografico, lo sprofondare nelle immagini di un film è pari solo allo sprofondare negli spazi tra le parole in un libro. Sia il cinema che la letteratura ci permettono di reclamare il nostro tempo e di usarlo differentemente ma senza finalità. In fondo vedere un film è sprecare del tempo, leggere è sprecare del tempo; però è proprio questo rifiuto di usare il tempo secondo una logica produttivistica che determina la nostra libertà, determina la nostra scelta. Letteratura e cinema sono ancora oggi l’affermazione più bella della libertà delle persone.
Si parlava di catastrofi spirituali – mesi fa quando c’è stata la guerra hanno fatto molto discutere alcune decisioni prese da istituzioni e organizzazioni culturali di escludere la partecipazione degli artisti russi. Qual è il suo pensiero e qual è la posizione del Festival?
Credo che l’ingiustificabile invasione russa dell’Ucraina sia evidente. Le richieste di sanzioni anche culturali avanzate dal mondo culturale ucraino nei confronti della Russia sono totalmente legittime e comprensibili in quanto sanzioni non letali che interpellano direttamente la nostra coscienza. Noi come festival abbiamo detto che non avremmo accettato al festival produzioni cinematografiche russe sotto le insegne degli istituti e dei ministeri coinvolti in questa aggressione. L’arte russa che non è allineata con le decisioni di questa aggressione è un’arte che da sempre - da quando Putin è al potere - soffre in maniera molto forte. La priorità in questo momento è l’Ucraina. Ovviamente bisogna fare attenzione a non commettere ingiustizie ai danni di persone che già subiscono torti semplicemente perché sono critiche nei confronti di un potere che non intende ragioni; però anche in questo caso ci sono dei valori – prima i diritti degli aggrediti poi tutte le altre considerazioni. È una situazione estremamente difficile e non dobbiamo dimenticarci che il nostro è un punto di vista privilegiato. Anche le nostre polemiche le svolgiamo sapendo che poi torniamo al riparo di un tetto che non ci verrà bombardato nottetempo. Qui è in gioco è l’umanità. L’autodeterminazione dei popoli. Dunque, aderiamo alla richiesta della cultura ucraina ma ci riserviamo comunque il diritto di valutare caso per caso.
Lei ha iniziato ufficialmente il 1 gennaio del 2021, possiamo dire che questo è il suo primo Festival senza misure anti covid. Per di più è la 75esima edizione. Come si sente?
L’anno scorso c’era la priorità assoluta di riportare il Festival a Locarno, di riportare Locarno alla Svizzera e la la Svizzera nel mondo. Abbiamo lavorato sodo per conseguire questo risultato. Quest’anno abbiamo avuto semplicemente più tempo per riflettere su cosa volevamo fare in occasione di questo importante anniversario. Con una similitudine cinematografica, l’edizione dell’anno scorso, con tutto che fosse un’edizione completa e con l’unico dettaglio della limitazione delle sale, la si potrebbe paragonare all’opera d’esordio: promettente, generosa, e entusiasta. Ora arriva il secondo difficile film, come si diceva una volta, cambiano i valori in campo, però in termini concreti l’impegno è esattamente lo stesso, se non di più.
Guardando al suo percorso professionale, come è stato ritrovarsi direttore artistico del Locarno Film Festival?
Non posso che provare ad attirare la sua attenzione sul fatto che mi ritrovo ad essere, spero degnamente, il volto del Festival avendo però dietro di me una squadra di persone altamente professionali che lavorano bene e senza risparmiarsi. È vero che le scelte del direttore artistico sono le scelte per le quali viene giudicato il Festival ma se io posso permettermi di dedicarmi al mio lavoro è perché ho il supporto generoso e totale di una squadra devota alla propria missione. Detto questo è vero che, come desiderio, Locarno era in cima ai miei pensieri. Locarno e non un altro festival. Non mi sono mai posto il problema di andare da qualche parte per una scelta di carriera. Ho avuto la fortuna di iniziare a lavorare con il Festival dodici anni fa in maniera molto particolare rispetto anche alle mie competenze linguistiche e oggi stare qui non lo ritengo un obiettivo raggiunto perché gli obiettivi raggiunti ottundono il senso critico. Il presidente Solari non ama che lo si citi però dice una cosa che ritengo profondamente giusta “bisogna essere animati sì dall’ambizione ma soprattutto dall’inquietudine” che ci permette di chiederci costantemente cosa stiamo facendo e dove stiamo andando. Questo dell’inquietudine è un atteggiamento che condivido profondamente, inquietudine positiva e non disfattista, inquietudine collaborativa, propositiva.
Se dovesse scegliere due parole per dare un’identità a questa edizione del Festival quali sceglierebbe?
Libero e inclusivo direi.
“Libero” mi fa pensare al Pardo alla carriera al regista Costa-Gavras
Costa-Gavras è un autore che con i suoi film ha attraversato tutta la storia del XX secolo. Un autore che è scappato da un paese in uno stato di dittatura ed è diventato assistente collaboratore di alcuni dei registi francesi più importanti dell’epoca. Ha raccontato i mali di un mondo diviso da una guerra fredda spietata. Ha raccontato i volti più oscuri dell’imperialismo statunitense, gli orrori dello stalinismo e allo stesso tempo ha sempre tentato di dialogare con il numero più ampio possibile di spettatori. L’artista è per Costa-Gavras una persona che dialoga con altri individui, dunque, lui ha sempre interpretato il suo essere regista non in chiave solipsista ma come un artista che si pone deliberatamente in una posizione di interlocuzione collettiva. Questo ha fatto sì che, dopo gli anni dell’impegno legato, soprattutto agli anni 70, la cinefilia quella più esigente gli ha un po’ voltato le spalle perché sembrava non condividere le urgenze formalistiche di tutta una serie di autori. In realtà Costa-Gravas è un classico, un autentico maestro, rivedere oggi i suoi film significa scoprire un cineasta che non solo ha detto cose importanti ma lo ha fatto sempre esplorando la forma cinematografica. Film come la Confessione, L’affare della Sezione Speciale sono assolutamente straordinari. Un noir come Compartiment tueurs, la sua opera prima, è un film straordinario che vedremo in Piazza Grande insieme a Un homme de trop, altro film clamoroso per come racconta le ambiguità morali di chi subisce un’invasione e di chi deve assumersi l’onere di respingere questa aggressione ma allo stesso tempo si trova costretto a riflettere su come non replicare l’ingiustizia subita per mantenere il proprio principio. Tutto questo in un film che, per come è movimentato, per come è girato, potrebbe essere un western. Ci sembrava giusto riportare l’attenzione su un cineasta che oggi è dato un po’ troppo facilmente per scontato.
Matt Dillon che - come recita il comunicato stampa - “incarna con suprema libertà un’idea di artista e di cinema americano che amiamo profondamente” riceverà il premio alla carriera. Ma questa idea di artista e cinema americano esiste ancora?
Esiste ormai un po’ di meno. Poi quando si parla cinema americano si rischia sempre di essere o generici o superficiali. Matt Dillon teoricamente era il classico attore che non sarebbe dovuto durare più di una stagione. A dar retta alle critiche dell’epoca, passati gli anni della pubertà, avrebbe dovuto scomparire e invece con una grandissima intelligenza artistica e con un grandissimo acume strategico non solo è sopravvissuto, non solo si è affermato portando avanti scelte mai convenzionali ma ha saputo trovare un ambito nel quale esistere come Matt Dillon cambiando continuamente. Matt Dillon è il ragazzo della 56esima strada, è Rusty il selvaggio, è uno di Tutti pazzi per Mary però è anche il serial killer spietato del film di Lars Von Trier, è il tossicomane di Drugstore Cowboy. Già solo citando questi film ci si rende conto che in ognuno di questi film lui è contemporaneamente Matt Dillon ma è anche quel personaggio lì. È uno dei pochi ad aver conservato la propria identità pur sparendo sempre nel ruolo che gli veniva offerto. Pur essendo un attore estremamente dotato di lui si ricordano i personaggi e non i manierismi legati a una scuola di recitazione piuttosto che a un’altra. L’altra cosa interessante è che Matt Dillon è diventato l’idea di un cinema americano e non la somma dei ruoli che ha interpretato. è una cosa che si può dire solo dei grandissimi. Questo attore ha una grandissima e straordinaria opacità hollywoodiana che io intendo come il maggiore dei complimenti che si possa fare a un interprete. L’interprete opaco è la nostra porta privilegiata per sparire in un film. Se l’interprete è troppo evidente noi restiamo davanti alla porta a contemplarne il taglio, la serratura, il materiale, a chiederci se si entra con il codice o con la chiave. Gli attori meravigliosamente opachi invece danno l’impressione di essere aperti, di non fare nulla, mentre invece fanno tantissimo. Con il premio a Matt Dillon volevamo onorare questo modo di lavorare.
Renderete omaggio anche a Douglas Sirk con una bella retrospettiva. Qual è la sua attualità?
L’attualità di Sirk è l’attualità dei maestri e i maestri sono sempre attuali. In un momento storico in cui si discute molto del riequilibrio delle asimmetrie tra donne e uomini, delle asimmetrie di genere, un cineasta come Douglas Sirk che ha affrontato le complessità relazionali tra uomini e donne, donne e donne, uomini e uomini, tocca molto da vicino molte delle corde contemporanee. Sirk è un cineasta estremamente moderno. Per molto tempo è stato considerato soltanto un autore di fotoromanzi perché i suoi film sembravano non avere uno stile, avevano un elemento melodrammatico molto forte, e si faceva un po’ fatica a capire cosa esattamente stesse dicendo questo signore. Jean-Luc Godard dichiarava in modo molto perentorio che lui aveva ragione ad amare Douglas Sirk e gli altri avessero torto a non apprezzarlo. “La verità è nei miei occhi” diceva a proposito di uno degli ultimi film di Sirk, aveva ragione lui, figurarsi.
Fu molto amato da Fassbinder.
Fassbinder ha individuato in Sirk un possibile esempio di cineasta tedesco che non esisteva più e che probabilmente lui avrebbe potuto essere. Non è un caso che dopo la scoperta di Sirk il cinema di Fassbinder diventa più libero, colorato, caldo e il regista abbandoni le rigidità di un cinema che tentava di dire delle cose in maniera molto diretta. Al punto da voler quasi replicare con la sua collaborazione con Xaver Schwarzenberger la collaborazione di Sirk con Russell Metty.
Quando prima parlava di Costa-Gavras di Gravas diceva che i suoi film erano per un ampio numero di spettatori. Lo è anche il suo Festival?
Il Locarno Film Festival non è di Giona Nazzaro ma della gente che viene al festival. Io credo profondamente in un cinema che sia d’autore, forte, radicale ma che desidera mettersi in comunicazione con il pubblico. Non credo in un cinema che deliberatamente sceglie di essere per pochi. Parafrasando, il voler essere per pochi è una malattia infantile del cinema d’autore ma il cinema senza pubblico non può esistere, il pubblico ha bisogno del cinema, il pubblico ha bisogno di incontrare il cinema. I grandi film del passato che oggi apprezziamo e definiamo come “classici” sono tali perché hanno incontrato lo sguardo di milioni e milioni di persone. Sto pensando a Viaggio a Tokyo di Ozu, Viaggio in Italia di Rossellini, Fino all’ultimo respiro di Godard, sto pensando a Buster Keaton, a Alfred Hitchcock. Se i loro film restano è perché hanno significato qualcosa per più generazioni. Dico semplicemente che se devo scegliere tra una sala piena e una sala vuota, scelgo sempre la sala piena. E se voglio riempirla scelgo un film che sia motivato cinematograficamente, sia espressione di un punto di vista autoriale e sia in grado di avere una conversazione con il pubblico. Nonostante la consapevolezza che abbiamo nei confronti della complessità della situazione relativa all’industria cinematografica e audiovisiva, non per nulla abbiamo istituito la cattedra per il futuro del cinema, nulla ci impedisce di desiderare di entrare in contatto con il numero più ampio possibile di persone senza giocare al ribasso. Uno dei pregiudizi anche inconsapevoli di chi giudica l’esito di una manifestazione culturale è che se una manifestazione ha avuto successo e ha attirato un sacco di pubblico qualcuno deve avere giocato al ribasso. Spesso e volentieri si tende a sottovalutare l’intelligenza del pubblico. Il pubblico non è questa massa informe in movimento spinta da un telecomando occulto. Il pubblico va lì dove si sente rispettato. La sfida di Locarno è avere un programma ambizioso in linea con la sua storia che sia in grado di interpellare l’emozione dell’immagine in movimento in tutte le sue forme e, allo stesso tempo, riuscire a creare una conversazione, coinvolgere il pubblico non come destinatario passivo ma come possibile attore di questa conversazione. Questo lo rivendico con molta determinazione. Non credo nel conforto di un manipolo di persone che ti dicono «bene, bravo, bis!». Se la sala è vuota c’è qualcosa che non ha funzionato. C’è un modo per far capire alle persone la grandezza di un film enorme come Sátántangó di Béla Tarr e convincerli a restare in sala fino alla fine. Non c’è bisogno di essere elitari per amare delle opere ambiziose. È una questione di come vogliamo raccontare quello che facciamo e che ci piace.