Il dio della parola

A Frauenfeld Marshall Mathers, in arte Eminem, ha dimostrato di essere sempre e ancora l’indiscusso numero uno dell’hip hop mondiale; i concerti sono stati oltre 50 in tre giorni
/ 16.07.2018
di Simona Sala

Di consacrazioni l’open air di Frauenfeld non ha bisogno. A dirlo, oltre al pubblico, sono i numeri, in impennata da anni: 15 milioni di franchi di budget (di cui circa il 25% destinato ai cachet degli ospiti), 180’000 biglietti venduti, il sold out raggiunto già a gennaio. Eppure quest’anno, se fra i 51 concerti e i 60 Dj set in programma, pubblico e critica avessero dovuto scegliere l’evento migliore, non ci sarebbero stati dubbi e all’unanimità sarebbe stato fatto un solo nome: Eminem. Erano otto anni che il rapper di Detroit non si esibiva a Frauenfeld, e dopo il successo planetario di Revival, uscito lo scorso dicembre, le aspettative di un live erano alte, fosse anche solo per fugare qualsiasi dubbio riguardo alle note dipendenze della star.

Quello che le 50’000 persone si sono trovate davanti non è stato solamente un artista brillante, che insieme al fido rapper e produttore Kon Artis-Mr Porter – che lo accompagna sin dagli esordi e, nei panni di hype man ne rinforza la voce, a volte un poco sottotono – non ha sbagliato un verso, ma anche un professionista che gioca in una lega ormai galattica, frequentata dalle megastar di un mondo dello spettacolo sempre più affollato.

Revival, lo show che Eminem ha offerto, in perfetta linea con i grandi spettacoli americani, è stato costruito con metronomo e cronometro, vien da dire, poiché ogni salto, ogni mossa, ogni passo, sono studiati nei minimi dettagli, mettendo in luce un professionismo lontano dagli esordi freestyle di colui che, sostituendo il proprio ego ipertrofico alla proverbiale timidezza, si definisce il Dio del rap (e come dovrebbe definirsi uno che, anche dal vero, riesce a pronunciare 1560 parole in poco più di 6 minuti?). Sarà anche merito dell’orchestra d’archi che lo accompagna, eppure durante l’ora e mezza di concerto, tanto professionismo non porta mai, nemmeno per un secondo, a un risultato scontato o, peggio ancora, banale, perché Eminem, sia che ripercorra i vecchi successi, tirando in ballo l’alter ego Slim Shady, oppure l’amico di sempre Dr. Dre in Medicine Man, rimane semplicemente in linea con sé stesso, ossia con quel rap preciso, tagliente e inconfondibile che ne ha segnato il successo.

Se da una parte la tuta grigia, il cappellino e la felpa con cappuccio ricordano l’Eminem degli esordi alla fine degli anni Novanta – a parte l’orologio, a differenza di altri hip hopper, ben poco è concesso al lusso – dall’altra parte abbiamo un accenno di barba, forse a inconsciamente contrassegnare quella maturità che lo porta a schierarsi apertamente contro Trump.

Eminem apre il concerto con un video in cui veste i panni di un rapper-godzilla a spasso per una città che distrugge a ogni passo, dove gli elicotteri sono poco più che moscerini: non è uno show per deboli di stomaco, ci fa capire. Ma soprattutto, ci dicono i due (!) medi alzati, vadano retro benpensanti e conformisti, cui giungono come un chiaro sberleffo quei colpi di arma da fuoco che contrappuntano il concerto (ma a Frauenfeld non è l’unico rapper ad avvalersi di questa trovata scenica), richiamando alla mente la triste quotidianità statunitense, dove le armi da fuoco sono protagoniste di stragi nelle scuole e contraddistinguono le ambigue esistenze dei rapper – l’ultimo in ordine di tempo, omaggiato a più riprese durante l’openair, è il giovane e talentuosissimo XXXTentacion, freddato in strada a scopo di rapina lo scorso 18 giugno a soli vent’anni.

Quando Marshall Mathers alias Slim Shady debuttò nel 1999 con The Slim Shady LP, album che scosse le fondamenta della musica e portò più di un critico a stilizzare dei parallelismi nientemeno che con Elvis (anche Eminem sembrava virtuosamente riuscito a «rubare» la musica ai neri e, rivisitandola, a creare una rottura totale con la società), grande era il rischio che le vagonate di soldi (250 milioni di dischi venduti), l’ossessione dei fan (come raccontato nella struggente Stan) e le pressioni mediatiche potessero trascinare nel baratro il giovane tormentato, reduce da un’infanzia triste e povera. Ma non è stato così. O forse sì, perché per anni abbiamo letto dei divorzi, dell’abuso di farmaci, delle riabilitazioni. Oggi lo troviamo più consapevole, fors’anche a modo suo più autentico.

Paradossalmente le parole, se non cantate, non sono il suo forte, e per questo quelle rivolte al pubblico durante il concerto restano poche e convenzionali. Ma d’altronde, a che pro parlare quando le presentazioni si trovano in canzoni come The Way I Am o My Name is? O quando le sinistre reminiscenze di quella violenza fatta di motoseghe e orrore che caratterizzò parte degli inizi, sono ormai al sicuro, confinate in brani come Kill You? Nella parte centrale dello show Mathers arriva perfino a fare una semi-concessione al romanticismo, affidandosi al supporto musicale della brava Skylar Gray per l’interpretazione di Walk on Water, Love the Way You Lie e, appunto, Stan.

I tempi sono cambiati, il rap non è più (solamente) la musica della protesta, ma da qualche anno è quanto di più vicino al cantautorato vi sia sulla scena attuale. Non si sbagliava probabilmente il Premio Nobel per la letteratura Seamus Heaney, quando alcuni anni or sono tesseva le lodi della sua energia verbale: ascoltare (bene) per credere.

Ghali, Migos e Lil Uzi Vert
Quest’anno a Frauenfeld vi è stato anche il battesimo ufficiale della trap in lingua italiana, con il primo ospite della Penisola ad esibirsi nella gigantesca kermesse svizzera. È toccato a Ghali. Forse a causa della sua aria innocua e sincera, o forse per la scelta degli abiti stravaganti (è stato definito uno degli uomini meglio vestiti del 2017) e i testi impegnati – con passaggi che ricordano i giochi linguistici del redivivo Stromae – l’ha spuntata su altri grossi nomi del panorama italiano come Sfera Ebbasta, Gué, FabriFibra o gli ormai indefinibili Fedez&J-Ax. Ghali è sempre quello di Cara Italia e Zingarello in bilico tra il palese desiderio di piacere tout court e una certa ricercatezza, come raccontano le calze al ginocchio e il completo giacca-bermuda dai colori improbabili. Durante il concerto regala t-shirt e cd, e i critici Oltre Gottardo lo apprezzano.

Impressionante il concerto (sotto l’acqua) di uno dei gruppi più importanti e gettonati del momento, i Migos. Al netto di un’ostentazione del lusso a tratti stucchevole e del gossip che da mesi accompagna la relazione tra il Migos Offset e la nuova regina del trap Cardi B, la loro è una musica che, se possibile, dal vero acquista ancora più valore, trasformandosi – per meccanismi ma non per risultati – in qualcosa che assomiglia molto all’improvvisazione che normalmente conosciamo nel jazz.

Migros, che oltre ad esserlo a Frauenfeld è uno dei maggiori sponsor dei più importanti openair elvetici, durante il concerto è stata al gioco ed è scesa in campo a modo suo spegnendo la lettera «erre» della propria gigantesca sigla arancione.

Una sorpresa positiva anche Lil Uzi Vert in completino sadomaso, aggregato di energia che ha saputo dimostrare come la sua figura di artista non si riduca unicamente a quella dello strafatto protagonista di XO Tour Lif3