Il film, prodotto dalla ticinese Cinédokké e da Cineworx in coproduzione con la RSI, avrà due anteprime alla presenza della regista: domani alle 20.30 al Lux di Massagno e mercoledì 14 settembre alle 20.30 all’Otello di Ascona. Noi intanto ci siamo fatti raccontare Semret da Caterina Mona (nella foto).
Dopo il debutto in Piazza Grande qualche settimana fa ora il film arriva in sala. Cosa si aspetta?
Ho vissuto l’emozione con il pubblico di Locarno, è stato difficile restare a vederlo con le protagoniste, per fortuna alla fine ci sono stati due applausi che mi hanno rassicurato. È bello mostrare il film al pubblico, ma in quel momento si è molto fragili ed esposti. Anche se non sembra, ho messo tanto di me in Semret.
È un film ticinese, cosa pensa del cinema in Ticino?
L’incontro con Michela Pini mi ha cambiato la vita, ha sempre creduto in me come già Tiziana Soudani. Erik e Fulvio Bernasconi, Niccolò Castelli e gli altri stanno facendo tanto, il Ticino ora ha un’importanza non da poco.
Com’è avvenuto il passaggio dal montaggio alla regia?
Ho sempre impiegato tempo per trovare cosa fare nella vita. Dopo aver studiato varie cose, ho fatto tanti lavori e sono sempre stata una cinefila. Ho scoperto il montaggio e mi sono cimentata per anni, era quel che volevo, prima film di finzione poi documentari intellettuali di spessore che richiedevano tempo. Non avevo il sogno di fare la regista. A un certo punto ho sentito la necessità di cambiare, ho pensato di diventare ostetrica e ho fatto uno stage in ospedale, un’esperienza molto interessante. Sono tornata a montare, ma con delle idee, prima per il cortometraggio, che mi ha fatto scoprire la passione per la regia, poi per Semret. Non smetto di montare, ora sto lavorando al film di un amico.
Però ha affidato Semret a un’altra montatrice.
Conosco il valore di un esterno che ha uno sguardo diverso. La fase di montaggio è stata rapida, perché sono veloce, anche nel lasciare andare le scene che magari sono belle ma non utili per il film.
Semret nasce dallo stage in ospedale?
In parte sì. Sono partita con l’idea di una donna, una madre con una figlia nata da una violenza e mi chiedevo come fosse possibile amarla. Ho incontrato donne con storie simili che mi hanno aiutato a costruire il personaggio e la storia di Semret, cui ho aggiunto il rapporto tra madre e figlia. Era cruciale scegliere che momento della loro vita volessi raccontare. Ho pensato a un rapporto stretto, simbiotico, con tratti non molto sani, ma con un passo verso una possibile guarigione. Joe cerca la sua identità, inizia a fare domande alla madre e a metterla in discussione. Mi interessa come si tramandano i traumi alla generazione successiva, come influiscono sulle relazioni e sull’essere genitori, già in Lost trattavo questo. Quando ho cambiato casa a Zurigo, ho conosciuto famiglie eritree e ascoltato i racconti sui viaggi pericolosi che fanno per arrivare qui e mi sono accorta che potevano diventare un film.
Il cinema svizzero ha affrontato parecchie volte storie di immigrazione.
Sì, ci sono documentari che la trattano in modo profondo. Nella finzione c’era Das Fräulein di Andrea Staka che era bello e profondo. Con una donna eritrea, una comunità presente anche se non molto visibile, non c’era ancora stato. Volevo farlo senza cadere nei cliché.
Com’è stato trovare le attrici?
Non è facile trovare un’eritrea che vive in Svizzera e non ci sono molte attrici eritree. Abbiamo pensato anche a cambiare la provenienza ma per me era importante che fosse eritrea. Ho trovato Lula Mebrahtu a Londra, con lei ho lavorato molto sul corpo, sui sentimenti repressi. La ragazza Hermela Tecleab si è presentata a un casting a Zurigo. Da subito hanno funzionato bene insieme.