Abbiamo incontrato Emanuele Coccia, filosofo, professore all’EHESS dal 2011, autore di molti saggi, tra cui nel 2017 La vie des plantes (Payot, 2017) tradotto in tutto il mondo. Gli abbiamo chiesto di parlarci del suo ultimo testo, scritto in buona parte prima dell’inizio della pandemia: La filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità (Einaudi Stile Libero). Qui a partire da spunti autobiografici Coccia inserisce la riflessione filosofica nella vita quotidiana, prendendo spunto dalla divisione in stanze degli appartamenti in cui viviamo.
Il suo testo parte dal presupposto che la filosofia si è occupata della città, nei secoli, trascurando la casa, che per questo: «è divenuta uno spazio in cui torti, oppressioni, ingiustizie e ineguaglianze sono state nascoste, dimenticate, riprodotte inconsapevolmente e meccanicamente per secoli». Ci racconti come e perché la filosofia allontana l’umanità dal male.
Non so se lo faccia, se la filosofia abbia questo potere. Probabilmente che la casa sia diventata un luogo di disuguaglianza e oppressione dipende dal fatto che la modernità ha scommesso tutto sulla città, che è diventata il luogo di produzione, al posto della casa. La casa così è diventata un ripostiglio, dove le cose vengono posate e non pensate.
Lei scrive: «non c’è nessuna identità di genere: nel genere, in ogni genere, si è almeno in due, e lo si è sempre nel modo di un esperimento, di un tentativo temporaneo». Perché ultimamente è dominante, invece, la necessità che ogni tentativo di genere diventi identitario, quindi definitivo?
Penso che questo identitarismo sia legato a una evoluzione della cultura occidentale. Anche le questioni razziali vengono declinate in termini identitari e non, come accadeva negli anni ’90, all’insegna del métissage. In parte è a causa di un malinteso filosofico per cui la libertà viene intesa come un atto di riconoscimento e non di compromesso.
La democrazia è l’invenzione di uno spazio in cui attraverso la parola (il parlamento) istanze diverse giungono a una scelta comune. Ora basti pensare al vocabolario dominante, anche nella sinistra, che da due secoli ormai è solo di stampo bellico: lotta, conflitto, rivendicazione... Non ci si ricorda mai che la politica nasce dall’esigenza umana di stare in pace, per poter vivere, e che per questo sono fondamentali la diplomazia e il dialogo.
«Una casa è l’io» scrive, poi crea un legame tra la scrittura e la casa: «abbiamo bisogno di casa per la stessa ragione per cui abbiamo bisogno di scrittura». Perché abbiamo bisogno di scrittura, allora, per avere un io?
L’idea fondante del libro è che la casa sia non solo lo spazio in cui abitiamo, ma un piccolo mondo di cui abbiamo più bisogno che del resto del mondo. Anche l’io è una parte di mondo, l’io non è un fatto spirituale, ma materiale. Paradossalmente non è neanche individuale, perché dell’io fanno parte persone, oggetti, sentimenti, eventi. La scrittura è l’esercizio di identificazione per eccellenza, la parola scritta suggella questo costante attraversamento tra l’io e il mondo.
Dei social media scrive che sono una forma aumentata ed estesa di letteratura. Non trova che la letteratura si caratterizzi per una ricerca estetica, per un amor di precisione di cui i social sono anche negazione?
Sì, scrivo infatti che siamo di fronte a una forma ancora embrionale di ciò che la letteratura potrebbe essere su questi media. Il fatto è che tutti i social ci costringono a raccontare e a raccontarci molto di più di quanto lo facessimo prima. Ci raccontiamo in modo rozzo e molto conflittuale perché anche nei social vince la necessità di rivendicare la propria identità. Il problema è che i social media e internet sono in mano a delle persone che non hanno nessun desiderio di fare avanguardia.
Dopo l’invenzione della stampa, Lutero inventò una nuova religione, quindi un nuovo modo di stare al mondo, fu la rivoluzione. Internet è uno strumento straordinario di cui gli artisti non si sono impadroniti: sarebbe così facile che dieci scrittori e scrittrici componessero un romanzo collettivo su facebook, per esempio, ma non avviene.
Chiediamo agli studenti degli elaborati con le note a pie’ di pagina come 500 anni fa, i corsi universitari non lavorano sui social in modo sistematico, è semplicemente assurdo.
Sulla paura scrive una delle cose più belle mai lette: «contro la paura non serve il coraggio, serve solo il desiderio, la sua ostinazione, la sua forza, a volte la sua cecità». Possiamo dedurne che la paura ci vince solo quando la desideriamo più di quanto non vogliamo altro?
La paura non esiste, c’è solo la debolezza del desiderio. Viviamo un’epoca di grandissime paure, la politica dell’identità è propria di coloro che hanno paura di essere feriti, perché lo sono stati in passato, perché è naturale...
Quando non desideri non c’è nulla che ti muove e tutto è così fragile, ogni cosa diventa patrimonio e aumenta la paura di perderlo. Il desiderio travolge, può sconvolgere tutto, desiderando non senti l’esigenza di difendere, perché sei sempre nella soglia tra avere e non avere.
Filosofia significa una vita cesellata dal desiderio, dall’amore per il mondo, in una relazione con esso non legata alla proprietà, al diritto, ma guidata dalla forza della filía che è più potente di eros perché si estende fino alla morte.