La copertina del nuovo album

Il culmine dei Tears For Fears

Il duo inglese è tornato
/ 02.05.2022
di Benedicta Froehlich

Sebbene la musica pop-rock anglosassone degli anni ’80 venga spesso identificata con l’easy listening più frivolo e con performers effimeri quanto improbabili, in realtà questo decennio sa offrire anche un’altra faccia della medaglia, rappresentata da quei (rari) nomi dimostratisi in grado di far sì che le esigenze commerciali dell’epoca non limitassero i loro orizzonti artistici. Tra questi è senz’altro da annoverare il duo britannico dei Tears For Fears, formato da Curt Smith e Roland Orzabal – i quali, a differenza della maggior parte dei coetanei, potevano fregiarsi di un certo intellettualismo, grazie al quale la loro opera si è ammantata di quello spessore e potenza che le hanno permesso di sopravvivere indenne agli edonistici Eighties. E sebbene, tra il 1993 e il 2021, il duo abbia pubblicato soltanto tre album – come a sottolineare il desiderio, da parte di Curt e Roland, di evitare qualsiasi impegno continuativo – ecco che oggi, dopo ben diciott’anni di silenzio discografico, i due, ormai sessantenni, tornano alla ribalta con un disco che rappresenta in molti sensi il culmine di un graduale processo di ritorno sulle scene da parte della formazione, ultimamente apparsa più volte sui palchi internazionali.

Il risultato è il nuovo The Tipping Point, album dalla forza e potenza evocativa davvero notevoli, la cui freschezza e intensità emotiva sono tali da rendere difficile credere che possa trattarsi di un’opera firmata da due artisti non più sulla cresta dell’onda. Si tratta infatti di un lavoro di grande modernità, in cui Smith e Orzabal sono riusciti nella difficile impresa di coniugare tensioni intimiste di stampo cantautorale a sonorità dal sapore marcatamente elettropop e perfino synth rock – che a tratti ricordano gli esperimenti di William Orbit o, in chiave più malinconica, i ritmi ossessivi di Radiohead e Muse.

In effetti, ciò che davvero affascina di quest’album è l’incredibile capacità di rinnovamento dimostrata dai Tears For Fears, i quali, anziché scegliere la via più «facile» e produrre un lavoro dal sapore retrò e vagamente nostalgico (così da cercare di tornare ai fasti del loro periodo d’oro), hanno deciso di rimettersi in gioco e sperimentare nuove strade – mettendosi inoltre al servizio di liriche di grande rilevanza e profondità, nelle quali è difficile non scorgere il riverbero del momento emotivamente devastante che noi tutti, in quanto persone e cittadini, stiamo vivendo ormai da tempo.

Suggestioni che appaiono evidenti anche nel secondo singolo estratto dall’album, No Small Thing: una riflessione sul modo in cui la società ancora insiste nel tarpare le ali ai propri membri qualora essi non si uniformino senza fallo a talune, banali convenzioni. Del resto, proprio il tema dell’appartenenza al consorzio umano, e dell’innata natura fallace e intimamente fragile dell’uomo stesso, la fa da padrone in quest’album, dando vita a testi vibranti e struggenti: si veda lo straziante Rivers of Mercy, riflessione sul disperato bisogno di perdono (e, in fondo, di compassionevole accettazione) che contraddistingue l’essere umano, e la sua pressoché costante condizione di solitudine: «lasciami cadere in fiumi di compassione / oso forse immaginare una qualche forma di fede e comprensione?» Lo stesso dilemma lo si ritrova in Long, Long, Long Time e Stay, brani che uniscono il fascino delle sonorità elettroniche, oggi tanto care a Curt e Roland, all’esplorazione di sentimenti comuni quanto intensi e, per questo, fondamentali; come dimostrato pure da Please Be Happy, toccante lento sulla disillusione e sul fardello terribile che essa può rappresentare nella mente di una persona ormai irrimediabilmente ferita dalla vita.

Ci sono poi anche tracce caratterizzate da un sound più radiofonico e tradizionale, come la ballata Master Plan, la quale suona come un brano firmato da una delle tante pop band di stampo prettamente beatlesiano che i primi anni del ventunesimo secolo ci hanno offerto; oppure End of Night, i cui ritmi martellanti strizzano l’occhio alle sonorità disco anni ’80 (una delle poche concessioni «vintage» a cui il disco si piega).

Tuttavia, la title track del CD (Etichetta Concord) si basa sui medesimi temi scottanti che costituiscono il fil rouge di quest’album – stavolta, però, in una chiave sonora ipnotica e quasi ossessiva, che costituisce, per ammissione dello stesso Roland, una sorta di autentica, liberatoria rottura artistica con gli obblighi del passato. Una liberazione che ha sortito gli effetti sperati, dato che The Tipping Point si potrebbe definire come l’album migliore del duo – quantomeno il più intenso, e, senz’altro, quello dalla maggior rilevanza sociale. Un lavoro che conferma la capacità dei Tears For Fears di coniugare l’aspetto orecchiabile e «da classifica» del proprio lavoro con gli aneliti narrativi più profondi e vibranti, restituendo alla musica pop il suo compito più nobile: quello di ritrarre in modo obiettivo (e, spesso, impietoso) la nostra società.