Quando capita di aver seguito e amato per lungo tempo un artista della scena cosiddetta «indie» o «alternativa», e di aver ardentemente auspicato (pur non osando sperarci troppo) che anche il grande pubblico si accorgesse finalmente delle sue notevoli capacità, ecco che, nel momento in cui tale fenomeno infine si verifica, perfino il diretto interessato ne resta spiazzato. Come nel caso del 42enne americano Sufjan Stevens – il quale, già autore di diversi album di grande profondità lirica e musicale, è rimasto non poco sconcertato dal (meritatissimo) successo critico del suo capolavoro Carrie & Lowell (2015), lacerante concept album autobiografico incentrato sulla tragica figura di una madre assente e disperatamente instabile.
Galvanizzato da un simile riscontro, l’artista ha oggi deciso di offrire ai suoi fan uno sguardo privilegiato sulla lavorazione di quest’opera tanto amata, presentando il nuovo The Greatest Gift come una collezione di quelli che, a prima vista, potrebbero considerarsi semplici «scarti» della lavorazione di Carrie & Lowell: demo, remix e cosiddetti outtakes, cioè brani rimasti esclusi dall’album per il quale erano stati originariamente concepiti. In realtà, come sempre accade con ogni singolo pezzo firmato dall’instancabile Sufjan, ciascuna di queste registrazioni si rivela essere una piccola gemma, più che meritevole di tale tardiva pubblicazione: ne è esempio particolarmente elevato la straziante traccia d’apertura Wallowa Lake Monster, sfaccettata parabola biblica che tesse un’intricata metafora intorno alla vicenda della madre di Sufjan, qui dipinta come la vittima di una sorta di «possessione» – e destinata a divenire, al pari della protagonista di una terribile allegoria d’altri tempi, la vittima del mostro del titolo, da sempre nascosto nelle profondità del lago Wallowa: «...e quando il drago si inabissò, capimmo che lei era morta». La complessità a tratti quasi eccessiva del testo e l’assoluta magia evocata dalla coda strumentale di chiusura fanno di questo pezzo uno dei migliori mai firmati da Stevens, in una sorta di incrocio tra le atmosfere di Carrie & Lowell e quelle di brani memorabili e coraggiosi come John Wayne Gacy Jr., tratto dal disco Illinoise (2008) e incentrato su uno dei più celebri serial killer americani.
Del resto, uno degli aspetti più interessanti di Carrie & Lowell, come dell’intera opera di Sufjan, risiede proprio nella capacità dell’autore di traslare e convertire l’assoluta sincerità autobiografica di testi quasi crudi (e degli scarni ritratti emotivi da essi intessuti) in una forma canzone di altissimo livello, in grado di sublimare l’intimo dolore dell’io narrante in immagini intense ma mai stucchevoli, e di schivare la facile trappola dell’eccesso descrittivo. In The Greatest Gift tale capacità brilla più che mai, offrendoci brani contraddistinti dall’abituale spirito intimista e autoreferenziale di Stevens, ma capaci di assumere le sfumature più disparate: si va così dal vibrante e ritmato The Hidden River of My Life al più spensierato City of Roses – celebrazione dell’amore di Sufjan per la città di Portland, scenario dei suoi anni formativi – fino all’indecifrabile ambivalenza della sublime «title track» The Greatest Gift, in cui l’apparente naïveté evangelica suggerita da testo e videoclip (un collage vintage di riviste care alla branca americana dei Testimoni di Geova) viene accostata a una certa, sotterranea ironia, lasciando all’ascoltatore il compito di interpretare le reali intenzioni dell’artista.
Il resto della tracklist è quasi interamente dedicato a remix di brani già presenti in Carrie & Lowell, come nel caso di Drawn to the Blood, qui presentata in ben due varianti: un Sufjan Stevens Remix a base di sintetizzatori mutuati dalla migliore tradizione della musica elettronica anni 80, e un Fingerpicking Remix, imperniato invece su un fine intreccio di accordi di chitarra. E se, come spesso accade con simili rimaneggiamenti, i risultati non aggiungono granché alle intenzioni dei brani originali, lo stesso non si può dire dei demo presenti nel disco, ovvero le prime prove «grezze» di registrazione di due delle tracce più toccanti di Carrie & Lowell: versioni scarne per sola voce e chitarra, che vedono Sufjan registrarsi da sé sul proprio iPhone, permettendoci così di assistere alla genesi di John My Beloved e della title track dell’album, i cui testi presentano qui diverse differenze rispetto alle versioni finali.
Ecco quindi che, pur non rappresentando del tutto una nuova opera inedita, un disco di questo calibro non fa che dimostrare come il recente successo di Stevens sia più che meritato; e, oltre a permetterci di riacquistare una certa fiducia nella capacità critica delle masse, ci conferma come il cantautorato americano indipendente e cosiddetto «di spessore» abbia infine trovato, dopo tanto tempo, un nuovo, meritevole portavoce – qualcuno che, nelle speranze di molti critici, è destinato a tenerne alta la bandiera ancora per lungo tempo.