Bibliografia

Zora del Buono, Die Marschallin, Monaco, C.H. Beck, 2020


«Il comunismo è aristocrazia per tutti»

L’incredibile storia di Zora del Buono raccontata dall’omonima nipote e scrittrice zurighese, penna sensibile spesso ispirata da vicende storiche, che in questo romanzo si è superata
/ 28.02.2022
di Natascha Fioretti

Non vi è nulla di più bello da bambini dello stare ad ascoltare le storie di famiglia raccontate dai nonni o, addirittura, dai bisnonni per chi ha la fortuna di conoscerli. Le storie di famiglia sono sempre contornate da un’aura magica, una nostalgia misteriosa per qualcosa che ci ha preceduti eppure ci appartiene. Una magia, che vive nel tempo, ci accompagna anche da adulti levigandoci dentro come l’acqua la pietra. Soprattutto se la storia ha i tratti avventurosi, quasi epici, della vita di Zora del Buono.

A pensarci, non poteva fare altrimenti l’omonima nipote, scrittrice per giunta, già autrice della novella Gotthard e Das Leben der Mächtigen, che raccoglierla e trascriverla in un romanzo. Il titolo in tedesco Die Marschallin non solo è perfetto, ma risuona forte e armonico, peccato non si possa dire lo stesso della parola corrispettiva in italiano, la marescialla. Ma rende l’idea.

Va detto che per entrare nel vivo del personaggio dobbiamo arrivare quasi a metà volume e che l’apice è rappresentato dal monologo finale della protagonista. Ma è anche vero che le pagine precedenti hanno il merito di delineare il contesto che forgia il carattere della protagonista e ne influenza il destino. A partire dal luogo di origine e dal periodo storico.

Corre l’anno 1918, siamo in Slovenia, a Plezzo, vicino al confine con l’Italia. Come tutti nella Valle dell’Isonzo, anche Zora conosce bene la guerra e sa nominare ogni cosa nelle tre lingue, la sua, e quelle degli invasori. Soške bitke. Battaglie dell’Isonzo. Isonzoschlachten. Per via dei suoi due anni in un collegio femminile a Vienna, le viene più facile il tedesco. La valle, le vaste distese verdi incorniciate dalle montagne, l’Isonzo verde smeraldo che le attraversa, restano un paesaggio sublime e indifferente, nella sua bellezza, ai soldati caduti. Finita la guerra, rientrati al villaggio dopo due anni, si fa la conta dei sopravvissuti. Zora e i suoi fratelli ci sono. Il piccolo Nino impegnato a raccogliere i bossoli con gli altri bambini, si ferisce e serve subito un dottore. Così Zora incontra Pietro del Buono, un siciliano ventitreenne tutto lentiggini che si presenta come il più giovane medico d’Italia.

Prima di mettere nuovamente a fuoco la protagonista, la scrittrice ci racconta il periodo berlinese del giovane Pietro che punta a diventare il più bravo radiologo d’Italia e ha grandi ambizioni. Siamo nel 1920 e lui e Zora sono fidanzati. Pietro vive in Eisenacher Straße a Schöneberg e sul comodino ha La lotta di Wadzek con la turbina a vapore di Alfred Döblin. Ne legge qualche pagina ogni sera per imparare la lingua ma anche per conoscere meglio la psiche dei tedeschi che gli sembra più profonda, più abissale di quella italiana, come se l’oscurità del Nord si fosse impossessata delle loro anime e sotto di esse bruciassero cose nascoste che non avevano potuto svilupparsi affatto nel Sud.

Al di là della grande esperienza professionale che Pietro raccoglie alla Charité sotto la guida del professor Blumenthal, al di là del collegiale rapporto con i colleghi, in particolare con la signorina Bloch, emergono due elementi fondamentali che ritroveremo nella sua vita con Zora in Italia: le sue ambizioni di radiologo e le sue inclinazioni politiche. Con la signorina Bloch va al numero in via Hasenheide, vicino a Hermannplatz. A questo indirizzo c’è il famoso edificio che ospita i Kliems Festsälen, sale e saloni noti sin dai primi anni del Novecento per il cabaret e il ballo. Qui nel 1920 nasce anche il Teatro Proletario e proprio qui Pietro partecipa a una riunione dell’USPD, il partito social democratico indipendente di Germania che in quel momento rischiava una frattura interna. Pietro è ammirato da quanto gli accade intorno, guarda la signorina Bloch infervorarsi e gridare «Siate visionari! Trasformiamo in realtà i sogni!». È tutto un tumulto, c’è chi grida «Diventiamo parte dell’Internazionale!». Seguono grandi applausi. Pietro in Italia non è iscritto al partito socialista, ma si ripromette di farlo non appena sarà a Napoli dove all’Università lo aspettano per avviare il più grande reparto di radiologia del Paese.

La parentesi partenopea la saltiamo e ritroviamo i coniugi del Buono a Bari nel 1932. È qui che finalmente mettiamo a fuoco Zora del Buono con tutta la sua intemperanza e la sua forza. È una vera pasionaria quando si tratta di politica, piena di contraddizioni e fragilità quando si tratta dei suoi tre figli maschi. Ma anche eccessiva nel suo stile di vita, nelle sue pretese da grande dame di provincia chiusa nel nobile palazzo. La sua è la villa più lussuosa di tutta Bari, l’ha voluta a immagine e somiglianza del Palazzo delle Poste di Palermo, quello in stile razionalista firmato da Angiolo Mazzoni. La villa di 23 stanze, nove bagni, un salone d’entrata illuminato dal prezioso lampadario fatto arrivare appositamente da Milano, è per lei un’ossessione e non ci vede nessuna contraddizione con la sua tessera comunista. Riprendendo le parole di Ramón Maria del Valle-Inclán, Zora ha una sua particolare idea del comunismo, per lei significa aristocrazia per tutti. Ne ha un’idea romantica in cui trova comodamente posto il suo stile di vita alto borghese fatto di grandi ricevimenti, personale di servizio, spese pazzesche.

Zora è imperiosa, dispotica, piena di temperamento, talentuosa, disprezza Mussolini e ammira Tito, al quale tenta di fornire delle armi e al quale suo marito Pietro salva la vita. Vista così, nulla, apparentemente, può scalfirla e invece la vita, come sapremo dal suo monologo finale, le riserva più d’una dolorosa sorpresa. A partire dai due figli che perde giovanissimi. «A ogni perdita si diventa più piccoli, persone con l’animo pieno di buchi e chi non è più intero dimentica la sua storia mentre i vuoti si accumulano fino a diventare un enorme buco nero, così grande che a un certo punto ci cadiamo dentro e ci dissolviamo nel nulla» dice alla sua badante in quel giorno del 1980 a Nova Gorica.

A quel punto Zora è diabetica, sola. Pietro, il suo Pietro, il rinomato professore di radiologia, è rimasto a Bari in una casa per anziani e non la riconosce più. Sono lontani i tempi in cui salvò la vita al maresciallo Tito. Zora si sente una reietta mandata in questo luogo a morire sola, d’altra parte è stata sua la scelta di non restare accanto a Pietro, «Avrei dovuto rimanere accanto a un uomo del genere portando da sola il peso dei morti e della colpa? Almeno i bei ricordi non volevo farmeli rubare, volevo che lo splendore della nostra storia si preservasse, quasi sessant’anni di matrimonio!».

Così Zora torna in patria, torna a casa dal suo maresciallo Tito. Il romanzo della zurighese Zora del Buono straborda di aneddoti famigliari e vicende storiche, sullo sfondo c’è anche un segreto di famiglia che sarebbe dovuto restare tale. Ma ad emergere preponderante, a conquistare il lettore è la figura umana della nonna. La bravura della nipote scrittrice sta nel ritrarla con estremo realismo ma non senza un tocco di poesia.

Bibliografia

Zora del Buono, Die Marschallin, Monaco, C.H. Beck, 2021.