«Quella sera con un bel chiar di luna siamo andati al Colosseo. Ai rintocchi della mezzanotte, il custode, che era stato avvertito, ci ha aperto, ma come suo dovere, non ci lasciava mai. Allora lo abbiamo mandato a prenderci qualche boccale di vino buono all’osteria più vicina. Una volta soli nell’immenso edificio, abbiamo goduto di uno spettacolo magnifico e per niente melanconico. Era una grande e sublime tragedia, e non un’elegia».
Stendhal nelle sue Promenades dans Rome, racconta che lasciò il Colosseo con amici e musicisti, alle due di notte, dopo un intermezzo musicale con il «prezioso quartetto di Bianca e Faliero di Rossini», e aver letto «alla luce chiara della luna», alcuni versi di Lord Byron, che di Roma e del Colosseo aveva già provato gl’incanti pochi anni prima. Era il novembre del 1828, e l’anfiteatro, che dalla metà del 1600 era diventato una delle mete romantiche del «Grand Tour», si ergeva enorme e solitario tra i campi e le vigne, ammantato di ombre, di echi luciferini, e spiriti magici che si nascondevano tra le frondose rovine. Infatti il vento, che da sempre spira impetuoso tra le arcate, le aveva riempite di terra, di vegetazione e di fiori, rendendole simili a dei giardini pensili e selvaggi, dove abbondavano piante rare e tropicali, studiate da illustri botanici già nel 1648 nel primo trattato sulla flora del Colosseo.
Sino alla fine dell’800, la «sensibilità romantica» impose ai nobili e intellettuali viaggiatori, il brivido di una visita al Colosseo al chiar di luna, come mostra anche un suggestivo schizzo di Goethe. Ma come avvertivano le guide del tempo, erano da evitare gl’insidiosi sotterranei, infestati di pericolose zanzare che fecero diverse vittime tra i visitatori, come la civettuola e capricciosa Daisy Miller, eroina dell’omonimo romanzo di Henry James, che per un furtivo bacio al tramonto, sfidò la sorte e morì a Roma di malaria. Queste e molte altre storie fanno parte del «fil rouge» che percorre la mostra: Colosseo. Un’icona a cura di Rossella Rea, Serena Romano e Riccardo Santangeli Valenzani, sulle metamorfosi di questo monumento arrivato sino a noi dopo circa 2000 anni di storia, e che oggi è annoverato tra le sette meraviglie del mondo moderno e visitato da più di sei milioni di persone all’anno.
Da luogo di spettacoli, a «spettacolo» esso stesso, l’Anfiteatro Flavio, come era chiamato, è passato dai fasti dei giochi imperiali e delle potenti famiglie romane per cui era stato creato nell’80 d.C. al totale abbandono, con la caduta dell’Impero Romano antico e l’avvento dei cristiani che, malgrado le suggestioni cinematografiche di Quo Vadis, non erano mai stati messi a morte nel Colosseo, e tuttavia di giochi gladiatòri e di divertimenti con spargimento di sangue, non ne volevano sentir parlare. E così l’Anfiteatro, divenuto Colyseus per l’enorme statua dorata di Nerone, poi Apollo, che gli sorgeva accanto, restò inutilizzato dal 523 d.C., fu in parte smantellato sotto Teodorico e i visigoti, conobbe il saccheggio e sopravvisse a violenti terremoti.
Nel Medioevo, avamposto solitario di una Roma più piccola e meno popolosa, il Colosseo fu scelto come abitazione da aristocratici, mercanti e popolo minuto che al suo interno ricavarono appartamenti, strade, stalle, magazzini e botteghe, mentre la nobile famiglia dei Frangipane oltre alla propria residenza, ci costruì una fortezza con cui affermava il proprio potere e controllava le importanti strade che lo costeggiavano. Molte furono anche le congregazioni che intorno al 1300, anni in cui i Papi avevano lasciato Roma, addossarono chiesette e cappelle alla gigantesca struttura. Pensiamo a quella di San Giacomo – di cui rimangono schizzi e disegni – appartenuta alla potente confraternita del Santissimo Salvatore, che al Colosseo nel 1500 creò anche un ospedale per i poveri e i pellegrini.
Papa Sisto V lo avrebbe voluto consacrare e Gian Lorenzo Bernini progettò una cappella da situarsi al centro dell’arena del Colosseo, che non venne realizzata, come altre proposte similari. Per il Giubileo del 1750 però Papa Benedetto XIV fece approntare quattordici edicole della Via Crucis, disposte sul perimetro dell’arena, rimosse durante l’occupazione napoleonica, poi ricostruite, e ancora spostate, mentre gli archeologi cominciavano ad interessarsi e a scavare nel passato del monumento.
Come la mitica Fenice, o forse più simile ad una gigantesca nave aliena, il Colosseo ha attraversato varie epoche, affascinante relitto che non passa mai inosservato: la sua immagine si ritrova al centro delle «bolle imperiali», i lussuosi sigilli usati da Federico Barbarossa nel XII secolo; nel «ritratto» quattrocentesco di Roma di Taddeo Bartolo al Palazzo Pubblico di Siena; nei quadri dei pittori fiamminghi Peter Brueghel il vecchio lo immortala come una Torre di Babele; ma anche Giovanbattista Piranesi si cimenta con il Colosseo nelle celebri acqueforti delle sue Antichità romane, mentre intorno al 1800 Carlo Lucangeli ne fa una riproduzione tridimensionale, un modello in legno spettacolare e accurato che si può ammirare in mostra.
Tornato al centro del panorama romano con l’apertura di via dei Fori Imperiali voluta da Mussolini, appare nelle foto della Roma liberata, assediato dai mezzi militari americani e dalla folla in festa. Se per Goffredo Parise bisognava «abbattere il Colosseo e rifarlo uguale, ma di plastica», Guttuso lo vedeva: «mezzo braciere e mezzo ossario», e lo dipinse come una natura morta di rovine.
La mostra Colosseo. Un’icona attraverso più di cento opere racconta ai visitatori come nei secoli sia stato vissuto, immaginato, ritratto, studiato e restaurato. Tra le opere vi sono i reperti dei recenti scavi archeologici che ne confermano le trasformazioni, ma anche i quadri, gli scritti e le più varie rappresentazioni di cui è protagonista questa mitica «scenografia» di Roma, che secondo gli archeologi che continuano gli scavi, molto ancora ha da raccontare della città e del proprio lungo e travagliato passato.