Regista di film come Tutti giù e Atlas (in onda domani sera su LA2 alle 21:05) che hanno contribuito all’affermazione del cinema svizzero italiano, direttore della Ticino Film Commission e ora alla guida delle Giornate cinematografiche di Soletta, Niccolò Castelli è il primo ticinese chiamato a dirigere la storica rassegna nazionale che inaugura mercoledì la 58esima edizione (tutto il programma della manifestazione in calendario fino al 25 gennaio è disponibile sul sito www.solothurnerfilmtage.ch).
Non è frequente che un regista passi a dirigere un festival anche se ci sono precedenti illustri, da Lizzani e Pontecorvo a Venezia o Moretti, Amelio e Virzì a Torino. Abbiamo dunque colto l’occasione per chiedere a Niccolò Castelli di raccontarci le sue emozioni e presentare la settimana di visioni.
Due anni fa inaugurava le Giornate con Atlas e ora si appresta a inaugurarle da direttore. Come si sente?
È stato un grande onore e lo è anche questa volta. Presentare, allora, un film in italiano che rappresentasse il cinema svizzero è stata una grande opportunità e una responsabilità per tutti quelli che ai tempi ci hanno lavorato. Ora mi sento un regista prestato a fare un film di una settimana con i film degli altri.
Avete ricevuto più di 600 lavori, come li avete selezionati? Nel programma si notano molti nomi nuovi.
Tra i 600 ci sono anche videoclip e corti e 150 lungometraggi. Chi non era riuscito a finirli per la pandemia li ha mandati ora. I giorni a disposizione e le sale sono quelli, abbiamo dovuto dire tanti no. Soletta è una vetrina, ma una vetrina curata, abbiamo fatto scelte, selezionato un cinema svizzero che mette le dita nelle ferite, tocca cose attuali, come guerra, gender o clima. Ci sono tanti film di giovani autori molto forti a livello stilistico, anche nella finzione.
Oltre alle tradizionali tre aree linguistiche, si notano sempre più registi di origine straniera.
Il cinema svizzero è come la nazionale di calcio, con tanti registi e registe originari di altri Paesi, gente che ha già il mondo in casa. Abbiamo sempre più immigrati di seconda generazione che vanno alla ricerca delle loro origini e della loro identità, dei loro parenti, delle persone scomparse nelle fosse comuni nei Balcani. L’identità svizzera non è più fatta di tre o quattro culture, ma è molto più complessa.
Passando da regista a direttore di festival ha scoperto qualcosa di nuovo?
Ho visto un cinema più giovane di me, che mi ha sorpreso, gente con meno anni e prospettive diverse. Il cinema svizzero è più aperto sul mondo di quel che si pensa, ha piede in Europa e altrove. Ho vissuto il piacere della scoperta e della ricerca di un certo tipo di narrazione che parla della vita e mi sono reso conto delle tante sensibilità presenti. E anche la varietà di coproduzioni, non solo con la Francia, la Germania o l’Italia, ma anche con la Polonia, il Belgio, i Balcani. Conoscevo meno gli attori del resto della Svizzera, di lingua tedesca o francese, e sono stati una bella scoperta.
Soprattutto alla guida della Film Commission si era impegnato per trovare spazio e visibilità per il cinema ticinese. Ora che è dall’altra parte cosa ne pensa?
Il Ticino ha i mezzi per giocare un ruolo e fare la sua parte. Negli ultimi anni ha compiuto tanti passi avanti. È una minoranza, ma deve farsi vedere, alzare il livello e non avere complessi di inferiorità. A Soletta rappresento anche la Svizzera italiana, ricordo che esiste. Ci siamo accorti che rispetto ad anni passati ci sono curiosamente meno film in italiano, però la produzione ticinese è varia, con ben 14 lungometraggi legati al Ticino, comprese coproduzioni con il Canada o il documentario su Douglas Sirk del tedesco Roman Hüben. Ci hanno molto impressionato i tanti corti di giovanissimi autori ticinesi, film sperimentali o di ricerca, anche indipendenti: ne abbiamo selezionati dieci.
E poi c’è Giacometti di Susanna Fanzun.
Mi ha fatto molto piacere vedere il documentario sui Giacometti, non nascondo il mio amore per la Bregaglia e Maloja. Parla di Bregaglia come un luogo che in modo misterioso ha dato i natali a tanta arte con la sua luce unica. Seguo Susanna dai suoi primi lavori, ha raccontato tre generazioni di artisti con immagini spettacolari e anche parti di finzione.
C’è un film che sorprenderà durante le Giornate o che catturerà il pubblico?
Sicuramente a un certo tipo di pubblico piacerà Giacometti, come già Giovanni Segantini – Magie des Lichts di Labhart. Credo che siamo stati coraggiosi a mettere in competizione The Curse di Maria Kaur Bedi, un documentario quasi sperimentale che parla di dipendenza dall’alcol. E poi due film legati ai Balcani, The Land Within e The Deny of Dignity.
È stato un anno di scomparse eccellenti per il cinema svizzero.
Infatti, non si potevamo non omaggiare Alain Tanner e Jean-Luc Godard, che hanno avuto un ruolo fondamentale, e Michael Sauter, sceneggiatore del cinema popolare degli anni 2000.
La principale novità sembra il maggiore spazio dedicato agli incontri.
Sì, il ruolo dei festival è cambiato. Una volta andavi a vedere film che non avresti più recuperato, ora si possono recuperare sulle piattaforme. E diventano importanti gli scambi tra gli spettatori, chi fa cinema e le istituzioni.