Salgo le scale di Torre Camuzzi e già sento le loro voci. Eva Zimmermann continua a ripetere soddisfatta «è proprio come l’avevo immaginata» mentre Regina Bucher le spiega come ha deciso di realizzare concretamente il suo concetto espositivo. Il loro è un lungo sodalizio iniziato più di un ventennio fa con l’allestimento della mostra permanente. «Abbiamo progettato insieme 25 mostre, racconta Regina Bucher. A fine anno vado in pensione, questa chiude in bellezza la nostra collaborazione». Non l’amicizia che le lega, quella continuerà.
Le raggiungo sul divanetto al centro della sala. I nostri sguardi convergono sul protagonista dell’esposizione, il piccolo Krishna di bronzo che pur senza flauto e senza piuma emana tutta la sua magia, la sua sinuosa leggerezza. Sembra felice. Alle spalle una versione ingigantita, come se dalla musica scaturisse e prendesse forma il suo sé. «Il Krishna è il simbolo centrale di tutta la mostra. Originariamente appartenuto al nonno di Hermann Hesse, lo scrittore lo vide per la prima volta da bambino nella sua casa a Calw», racconta Eva Zimmermann. «È bello sapere che negli anni questo prezioso oggetto è rimasto custodito in famiglia. Per l’occasione ci è stato gentilmente dato da Christine Widmer, la nipote di Hesse che ho avuto il piacere di incontrare e che un giorno lo passerà a sua figlia Karin Widmer, autrice della meravigliosa edizione per bambini di Klingsors letzter Sommer impreziosita di numerosi acquarelli» aggiunge la direttrice.
La gigantografia del Krishna sottolinea il grande influsso che la spiritualità orientale ha esercitato su Hesse. «Il Krishna è la figura centrale nella Bhagavad Gita, la prima opera asiatica letta dallo scrittore» sottolinea Eva Zimmermann. Hesse ne rimase affascinato a tal punto che ritroviamo la divinità indiana sotto diverse forme in molte sue opere a partire da Siddharta.
Figlio di missionari che operarono in India, già da piccolo Hesse ricevette i primi stimoli, ma furono soprattutto «i suoi successivi studi di filosofia indiana e di buddismo, le esperienze personali, il suo soggiorno al Monte Verità, i viaggi in Asia di alcuni mesi, gli esperimenti di ascetismo e di yoga, le esperienze di amore erotico e la scoperta del taoismo, il tentativo del suo superamento attraverso la psicanalisi di una relazione sentimentale» a qualificare la sua crescita spirituale.
È proprio su questo percorso complesso e profondo durato un ventennio che si concentra la mostra dal titolo Il cammino di Hesse verso Siddharta (ispirato a una dichiarazione di Hesse del 1922 «Io non sono Siddharta. Io sono in cammino verso di lui»).
Le due curatrici ci tengono però a sottolineare che al centro del loro lavoro non vi è il racconto scritto proprio qui in queste stanze, pubblicato un secolo fa e tradotto in oltre 60 lingue (un’ampia selezione di traduzioni di Siddharta da tutto il mondo si può vedere in mostra). L’idea che sottende l’esposizione è quella di raccontare l’evoluzione del cammino di Hesse. Il percorso si sviluppa in ordine cronologico, dalla sua infanzia fino al raggiungimento di uno stato di conoscenza, di esperienza e saggezza di vita tali che gli permisero di scrivere Siddharta. «In un certo senso la mostra prepara il visitatore alla lettura», dicono entrambe.
L’intento del Premio Nobel per la letteratura (1946) fu quello di scoprire che cosa accomuna tutte le confessioni e tutte le forme umane di pietà, che cosa ci sia al di sopra delle differenze nazionali, cosa possa essere creduto e adorato da ogni razza e ogni individuo. Nella sua opera confluiscono correnti spirituali diverse da cui scaturisce un’originale fusione che è al contempo sovraindividuale e interculturale. secondo Eva Zimmermann l’obiettivo di Hesse era quello di sondare «ciò che può essere creduto e venerato da ogni individuo».
Dunque attraverso un’ampia selezione di citazioni e fotografie, oggettipersonali, libri, preziose prime edizioni ed edizioni speciali, dattiloscritti e manoscritti, veniamo a conoscenza dei diversi studi e delle esperienze che hanno ispirato e influenzato il lavoro di Hesse; dallo studio della cultura asiatica e in particolare dal confronto con l’Ottuplice Sentiero del Buddha e col Tao di Laozi, lo scrittore attinse le metafore che definiscono la ricerca della conoscenza e della verità come un «sentiero» o una «via». In quest’ottica la ricerca è equiparata a un processo di acquisizione della conoscenza scandito da bivi, deviazioni, ostacoli e traguardi provvisori che non conduce necessariamente a una meta definitiva.
«Non saranno più gli asceti e le dottrine a istruirmi, è da me che voglio imparare, di me stesso voglio essere il discepolo, voglio conoscermi, svelare quel mistero che ha il nome Siddharta», dice il protagonista nel racconto. Come scrive il traduttore e intellettuale Massimo Mila nella sua introduzione al Siddharta pubblicato da Adelphi, in Germania dopo Herder e Goethe, l’interesse per le dottrine indiane non venne mai meno «le analogie tra il buddismo e il pessimismo di Schopenhauer (che dichiarava la lettura delle Upanishad essere stato l’unico conforto della sua vita) sono state più d’una volta dottamente illustrate». Prampolini, che Mila cita, va persino oltre quando dice che «i due popoli hanno in comune una spiccata tendenza alla contemplazione, alla speculazione astratta, al panteismo e perciò al Weltschmerz, cioè a sentire il dolore cosmico».
Come sicuramente molti di voi, il Siddharta l’ho letto più e più volte negli anni di liceo e di università, così come le sue poesie che ancora oggi mi accompagnano («Quando la vita chiama, il cuore sia pronto a partire e a ricominciare...Ogni inizio contiene una magia che ci protegge e a vivere ci aiuta». Stufen, 1941). Incuriosita e affascinata dalla mostra, da quella luce che durante l’azzurra mattina inaugurale ammantava il folto pubblico raccolto nella piazzetta davanti all’entrata del Museo, sono corsa a rileggerlo. E l’ho trovato di un’attualità sconvolgente.
Siddhartha è colui che ha raggiunto la sua meta, l’uomo che ha percorso la via del risveglio, sulla strada che conduce a sé stesso. Se ci pensiamo, quasi tutti i personaggi di Hesse sono dei cercatori inquieti e bisognosi di certezza, persone alla ricerca dell’Assoluto, di una verità come fondamento nell’universale relatività dell’esistenza e del mondo, un assoluto che possono trovare solo in sé stessi. «Trovarsi è l’ansia costante di questi personaggi: pervenire a quella consapevolezza di sé che permette alla personalità di realizzarsi completamente e di vivere, allora, realmente, quelle ore, quei giorni, quegli anni che vengono di solito sciupati nella banalità quotidiana di una esistenza di “ordinaria amministrazione”» scrive Mila citando Piero Martinetti.
In tedesco «der Suchende» (colui che cerca) designa appunto quegli uomini che non restano in superficie, ma ragionano su ogni aspetto della vita, sentono l’urgenza di andare a fondo. Quel cercare è allora di per sé già un trovare o «un vivere nello spirito» secondo Sant’Agostino.
Dice Siddharta a colei che lo inizia all’amore «La maggior parte degli uomini, Kamala, sono come una foglia cadente, che si libra e si rigira nell’aria e scende ondeggiando al suolo. Ma altri, pochi, sono come gli astri, che vanno per un loro corso preciso, e non c’è vento che li tocchi, hanno in sé stessi la loro legge e il loro cammino».