Per le coscienze non c’è nulla di più consolatorio, ma anche di ottundente, di un rito. E la kermesse sanremese è un rito che permette di scacciare a colpi di inezie i demoni dell’inverno e di far tacere per qualche giorno le angosce del quotidiano. Sanremo ha una sorta di ambizione universalistica, cioè quella di diventare piazza di incontro per istanze sociali varie; ma tutto in tono lieve, di programmatica superficialità, senza disturbare troppo né gli spettatori né i sempiterni referenti, cioè tra gli altri i manovratori della politica reduci dalle figuracce quirinalizie.
L’edizione di quest’anno (di cui, per esigenze di chiusura redazionale, posso parlare solo delle prime tre serate) ha appunto raccolto una serie di temi e di stimoli, tutti omologati e depotenziati nella solita melassa di un entusiasmo un po’ fasullo. Di qui le provocazioni «telefonate» di Fiorello e di Zalone, anch’essi coinvolti in questo mood festivaliero che li ha privati di qualche artiglio e di parecchia capacità di stupire. (Drusilla Foer, invece, ci ha ricordato che altro è possibile nell’intrattenimento, in termini di stile e di intelligenza.). Cerimoniere ancora Amadeus, quest’anno in veste di autore, di direttore artistico e di presentatore: sempre felice ed entusiasta di ogni piccola cosa, grandi risate e complimenti sperticati, in un’ecumenica positività che parrebbe stolida in altro contesto, ma che qui ci stava. «Grazie Amadeus a nome degli italiani che fai sentire tutti geni», gli ha lucidamente detto Zalone, agitando così lo spettro della «fenomenologia di Mike Bongiorno».
Nel contenitore festivaliero abbiamo trovato di tutto, dalla celebrazione degli eroi sportivi bellocci ai lanci delle novità del palinsesto RAI, dalla presentazione di eventi a qualche riflessione minima su temi di società (il razzismo, le questioni di genere, il cyberbullismo, la criminalità, l’omofobia), dal ricordo dei defunti alle ospitate italicamente autarchiche, fino alle «papaline» del Fantasanremo. Una vetrina omogeneizzata, con un occhio attento alla sensibilità del pubblico-target, cioè di quei consumatori da divano con le fodere e da pelliccetta di rat musqué; un parterre fedele, che occorre trattare da persone di ampie vedute, ma non troppo né per troppo tempo, perché l’insofferenza è in agguato, con l’ansia di essere scaldati e sedati a suon di balli di gruppo e di battimani, di registri bassi.
E la musica? C’è anche quella, certo. Non esprimo giudizi se non per dire che vi erano anche canzoni di qualità autoriale, di notevole complessità strutturale, vere sfide a livello vocale (Noemi, Mahmood-Blanco, Truppi, Irama, Sangiovanni). E poi Emma ed Elisa con intelligenti riletture dell’italica tradizione canora.
Sanremo è una macchina perfetta, e una grande sfida tecnico-organizzativa per il servizio pubblico; ha unito «arte», tecnologia, creatività e industria in una sintesi ideale, specchio della professionalità degli operatori. Più che il mainstream della grancassa osannante dei media, sono gli ascolti trionfali – che, come si sa, sono l’unica cosa che conta – a beatificare anche l’edizione di quest’anno del rito nazionalpopolare sanremese.