Per quanto il tema sia importante, non è una questione di genere o di pari opportunità. Ripercorrere il meglio discografico del 2018 e selezionare tre produzioni che vedono come protagoniste tre donne è un semplice dato di fatto che – per quanto soggettivo – ci consegna un anno d’oro per l’autorialità musicale al femminile. Su scala regionale, nazionale e internazionale.
Julia Holter – Aviary
Era da tre anni che critica e pubblico l’aspettavano al varco – da quel 2015 in cui pubblicò l’album-rivelazione Have You in My Wilderness – e l’attesa non è stata vana. E se la si aspettava al varco non è tanto perché si potessero immaginare chissà quali cadute di stile o creatività, semplicemente il disco precedente aveva attraversato il cielo del rock indipendente americano come un luminosissimo oggetto non-identificato (per la carica di intelligenza e novità che con sé portava) che un qualsiasi effetto sorpresa era ormai escluso.
E proprio per irridere queste aspettative la cantautrice californiana sembra aver impostato la scaletta della nuova pubblicazione Aviary: le prime tracce suonano infatti piuttosto convenzionali, in un senso rock, quasi a dire: «sì, sono diventata normale anch’io». Ma poco prima della metà del disco gli orizzonti si aprono improvvisamente, e l’ascoltatore sente riapparire quella strana meteora nel cielo. Spazi che si allargano all’improvviso, arrangiamenti ricchissimi che riescono a diventare anche molto scarni, strumenti acustici che fanno cose mai sentite (perlomeno in dischi di cantautorato). E soprattutto l’elettronica: il vintage che diviene puro calore e pura energia.
Sophie Hunger – Molecules
Il caleidoscopico mondo dei sintetizzatori d’epoca – inesauribili generatori di timbri, ritmi e sensazioni – gioca una parte molto rilevante anche in Molecules, il nuovo album di colei che con una certa sicurezza potremmo definire la maggiore musicista svizzera contemporanea, anche grazie al Premio svizzero di musica 2016. Sophie Hunger – autrice di ogni pezzo del disco, prodotto però dall’estro tutto britannico di Jim Chancellor – lo fa capire fin dal primo suono della prima traccia, She Makes President, con il rintocco di un basso che i puristi definirebbero con una certa ingordigia «molto grasso».
Elettronica che scandisce i ritmi – a tratti intelligentemente declinati in scomposizioni irregolari di 3 o 5 – ma che non disdegna l’intervento acustico, anche qui a marcare una non-omologazione di genere. Tanto che per la parte di percussione è stato coinvolto il più pazzo tra i giovani musicisti svizzeri: Julian Sartorius. Un disco che quindi può anche apparire come la summa di quanto di più interessante avviene nella nostra nazione.
Selva Nuda – Le mie parole
Su un pianeta completamente diverso ci porta infine Selva Nuda, alias artistico di Cristina Castelli, luganese trapiantata da tempo a Ginevra. Il suo Le mie parole è un disco (EP, bisognerebbe tecnicamente dire, dato il numero limitato di tracce) che gioca tutto nell’intimità della voce accompagnata dalla chitarra. Una nudità che in molti potrebbero avvertire come imbarazzante, perché espone in primissimo piano la voce, senza alcuna protezione: un vero problema, si potrebbe dire, ma non se si ha la voce di Selva Nuda e si riesce a venare con tonalità espressive diverse ogni evoluzione del testo e della melodia.
Un disco da cui lasciarsi abbracciare, in tutti i sensi, attraverso un approccio trilinguistico che riflette le esperienze e gli ascolti della protagonista ma anche una dimensione sempre più frequente nella vita di molti. Ed è importante ricevere questa fotografia della creazione musicale della Svizzera italiana anche da qualcuno che non vive più a sud delle Alpi. Sentiti da fuori sembriamo quasi più belli.