I trabocchetti dell’italiano, fra errori fittizi e orrori reali

La lingua batte - Si può chiudere un occhio sull’usatissimo «cosa ne pensi di…?». «Mi auspico» invece è da bocciare. O forse no?
/ 11.05.2020
di Laila Meroni Petrantoni

Non ci sono solo dubbi, incertezze e timori in questo 2020 strano e decisamente bisestile. In questo tempo fuori dal tempo siamo confrontati con molti pensieri, opinioni e auspici, frutto delle nostre riflessioni più intime oppure sbandierati (a ragione o a casaccio) sui media. E in questo ambito l’occasione è ghiotta per vederci chiaro, se la lingua suo malgrado batte dove il dente duole. Manuali di grammatica alla mano.

Il punto di partenza si trova nel campo del pensiero positivo: di qualsiasi tema si tratti, ognuno di noi si augura che tutto vada bene. L’animo vola alto quando si serve delle ali della speranza; poi però un inciampo linguistico appesantisce di colpo lo spirito. Succede quando invece di augurarsi un rapido ritorno alla vita normale, l’oratore di turno sceglie un «mi auspico che l’economia riparta con vigore». Duole davvero dover dubitare di una frase così carica di fiducia e aspettativa, purtroppo però è utile ricordare anche all’ottimista che la forma auspicarsi è sostanzialmente sbagliata. Non scatta alcuna bacchettata sulle dita, stavolta, perché di fronte a una pandemia che ci vede tutti sulla stessa barca è ancora più importante bandire ogni forma di violenza. Tuttavia: i due verbi hanno significati simili ma non si comportano allo stesso modo, sarebbe meglio non inquinare il verbo auspicare mischiandolo con augurarsi, che (lui sì, a buon diritto) è verbo pronominale.

«La forma auspicarsi è errata» – spiega l’Enciclopedia Treccani – mentre il Vocabolario online della stessa famiglia la ammette; in mezzo ai due fronti, sul tema l’Accademia della Crusca si mostra piuttosto indulgente e ammette che «È probabile che […] auspicarsi […] sia trascinato dalla contiguità con augurarsi a un valore intransitivo pronominale e a un significato che non gli sono del tutto propri». Le regole, anche nella lingua, sembrano fatte per essere messe in discussione.

Detto degli auspici, passiamo ai pensieri e alle opinioni. E qui confesso una debolezza personale che sto comunque curando. Ogni volta che sento una domanda del tipo «cosa ne pensi di quel libro?» scatta mio malgrado una reazione automatica e un campanello mi squilla nella testa. «E che sarà mai?!», direte giustamente: nessuno si scandalizza di fronte a questa abbondanza, questa convivenza nella medesima frase della particella pronominale ne e del complemento introdotto dalla preposizione di, riferite allo stesso oggetto.

Le bacchettate sulle dita per ipersensibilità linguistica me le do da sola, ma chiedo almeno la soddisfazione di dire che la forma «cosa pensi di quel libro?» è quella più corretta. Il tema non è raro fra i professionisti e gli appassionati della lingua italiana, tanto che si parla di «ne pleonastico», quindi superfluo; tuttavia pare essere stato sdoganato da tempo e accettato come forma derivante dal gergo colloquiale e utile per rafforzare ciò che viene enunciato. Questo non significa che ci si permetta orrori come, ad esempio, «Il giardino era pieno di fiori, di cui ne ho visti alcuni molto rari»: no, no, e ancora no.

Come detto, sto imparando a mettere a tacere quel campanello mentale che in fondo mi segnala come errore ciò che errore non è. Un difetto, questo, che ricorda la sproporzionata sensibilità uditiva di Superman e la sua proverbiale vista a raggi X: nel mio caso si tratta di difetto e non di superpoteri, che tuttavia come noto possono creare al grande eroe anche fisime e fastidi. Ma già che ci sono, perché non usarli?