Dopo essere stata assente, per qualche tempo, dalle grandi rassegne internazionali, la pittura torna protagonista in grande stile a Palazzo Grassi a Venezia con la mostra di Marlene Dumas. Si tratta di una vera e propria celebrazione di questo mezzo artistico, che Dumas impiega quale strumento di appropriazione di altri linguaggi, come nel caso di scene tratte da film, di immagini fotografiche ritagliate dai giornali o di polaroid scattate da lei stessa. Questi fotogrammi vengono poi replicati e reimmaginati nella nuova declinazione di tratto, colore e consistenza determinati dall’uso della pittura a olio o dell’inchiostro. «Sono un’artista che utilizza immagini di seconda mano ed esperienze di primo ordine». Dumas parla così del suo metodo di lavoro, con una certa ironia, elemento quest’ultimo che sempre serpeggia nel rapporto fra l’artista e la parola scritta, anche quando si tratti dei titoli che attribuisce alle sue opere.
Il titolo emblematico della rassegna, che copre un periodo dal 1984 ad oggi, è Open-End, «finale aperto», ma anche «fine non definitiva». È un titolo dato dalla stessa artista che, alla soglia dei settant’anni, riflette sulla sua carriera e sul tema della vecchiaia, paura ineludibile che spesso ritorna nelle sue riflessioni. Open-end è però anche un concetto libero ad interpretazioni, una risposta aperta e non predeterminata, dove non esistono soluzioni a priori.
L’allestimento, leggero ed estemporaneo, non presenta alcuna sovrastruttura e, anzi, replica quasi il modo di sistemare i lavori in atelier, quando ancora sono in divenire. Le tele sono prive di cornici e le carte degli acquerelli e delle grafiche sono fissate al muro con spilli. Non ci sono didascalie: un libretto con le riproduzioni di ogni opera e una spiegazione molto agile accompagna lo spettatore nella visita. Si tratta di un percorso che si può compiere passeggiando da tanto le opere sono omogenee fra loro, elementi di un ambiente coeso. Ma alcune delle figure mostrate trattengono lo sguardo di chi osserva: spesso sono immagini che non ci permettono di essere a nostro agio (ne è un è il dipinto a olio qui a lato del 1999 dal titolo Turkish Girl). Forse è la categoria che Freud indicava come quella del «perturbante» che meglio inquadra questi soggetti: ciò che è in grado di suscitare paure incomprensibili tipiche dell’infanzia, una forma di spaesamento che ci mette in diretta relazione con il nostro inconscio. Ci si sofferma allora su volti e figure e, quasi a comprendere il nostro imbarazzo, il testo ci spiega quali siano state le fonti di ispirazione dell’opera, le immagini che sono alle radici di essa.
Marlene Dumas nasce in Sudafrica nel 1953; la sua lingua è l’afrikaans, parlata dai coloni olandesi fin dal loro sbarco al Capo di Buona Speranza. Proveniente da una famiglia agiata, cresce però in un contesto sociale segnato dall’apartheid, che determinerà in lei una sensibilità profonda e una cura sincera per i temi della discriminazione razziale, di genere e, più in generale, identitaria. Presto si trasferisce ad Amsterdam per continuare gli studi d’arte, iniziati a Cape Town, e qui vive ancora oggi. Racconta che i suoi quadri nascono nella notte, quando tutte le altre attività sono state portate a termine, quando non ci sono più persone attorno e sono finite le distrazioni. Con la superficie e il colore ha un rapporto quasi performativo, che si riscontra anche nei lavori conclusi: «La pittura è la traccia del tocco umano, è la pelle di una superficie. Un dipinto non è una cartolina». Spiega di non essere mai rilassata quando dipinge, trovandosi sempre in uno stato di tensione, di ansia, essendo questa l’unica condizione che le permetta di confrontarsi con la necessaria concentrazione ai soggetti dei quali si sta occupando. Essi sono in generale della più ampia varietà, dai ricordi d’infanzia alle scene di scottante attualità.
Un aspetto molto discusso della pittura di Marlene Dumas è anche la crudezza del suo sguardo inclemente, non tanto nella resa pittorica, ma piuttosto nella scelta dei soggetti: l’immagine dell’autopsia di Marilyn Monroe, privata di ogni fascino, esemplifica bene questo atteggiamento, così come quelle di erotismo del tutto spogliate di ogni attrattiva. Ma in mostra hanno grande spazio i ritratti, siano essi di personaggi noti – come quello doppio di Pasolini e di sua madre o quello della donna che uccise Marat. D’interesse sono anche i ritratti di quei personaggi dei quali non si conoscano le fattezze, ma di cui la pittrice ha delineato una personalità ben precisa con linee e colori ispiratele più dalla loro vicenda, che dalla ricerca di una somiglianza somatica. È il caso, per esempio, di Jeanne Duval, la misteriosa amante di Baudelaire, dalle origini creole e il destino infelice dettato dalla malattia mentale.
In questi volti e nelle scene a sfondo politico della Dumas si ritrova tutto il valore del suo sguardo impietoso, proprio come l’artista sa essere: rivelatore di quei sentimenti e di quelle emozioni che forse non sappiamo e non possiamo affrontare da soli.