Nel cuore della città di Varese c’è una splendida villa in stile Liberty immersa in un grande parco con alberi secolari e piante esotiche. Quando Enrico Zanotti, medico molto stimato e conosciuto, la fece erigere nel 1907 come abitazione di famiglia, il contesto circostante era molto diverso da quello attuale: pochi edifici e poche strade scarsamente affollate. Eppure, anche oggi che attorno a essa i palazzi si sono moltiplicati e le vie si sono riempite di negozi e di persone, la dimora riesce ancora a risaltare con la sua nobile mole, testimonianza di un fascino d’altri tempi diventato patrimonio culturale identitario di Varese.
Non si fatica dunque a credere che questa suggestiva residenza abbia colpito Marcello Morandini, artista mantovano di nascita ma varesino d’adozione, che, proprio quando era alla ricerca di un luogo adatto a ospitare la Fondazione a lui dedicata, la vide e subito se ne innamorò, trovandola perfetta per questa nuova destinazione.
Grazie all’aiuto di due generosi collezionisti americani, la villa venne acquistata e restaurata coniugando armoniosamente le caratteristiche di uno spazio espositivo alla struttura originale dell’edificio. A lavori ultimati, nell’autunno di due anni fa, ecco che qui viene inaugurata la Fondazione Marcello Morandini con l’obiettivo di creare un museo dedicato alla conservazione e alla valorizzazione delle opere dell’artista, una delle figure più rappresentative dell’Arte Concreta europea, e di promuovere la conoscenza del movimento concretista attraverso mostre, conferenze e pubblicazioni di alto livello.
E, difatti, a documentare il prolifico percorso di Morandini, oggi ottantatreenne, è una selezione di lavori che fa parte della collezione permanente della Fondazione: opere che dalla prima metà degli anni Sessanta, quando l’artista esordisce con le sue prime creazioni tridimensionali e con la sua prima personale curata da Germano Celant, arrivano fino ai giorni nostri, portandoci a conoscenza di una ricerca contraddistinta da una profonda dedizione al linguaggio geometrico applicata ai diversi campi della pittura, della scultura, del design e dell’architettura.
Come si evince dalle opere esposte, Morandini ha sempre indagato il movimento nello spazio esprimendolo secondo le logiche della matematica. Naturale, quindi, è stato il suo accostarsi sia alle esperienze dell’Arte Concreta, improntata a fare delle strutture geometrizzanti e dei colori puri gli strumenti per manifestare le forme del reale, sia a quelle dell’Arte Cinetica, volta alla resa del dinamismo e allo studio dei meccanismi della percezione visiva.
Proprio rapportandosi al rigoroso razionalismo che permea la produzione di Morandini, la Fondazione ospita fino alla metà di aprile una mostra che ruota attorno al quadrato, figura dall’alto valore simbolico che evoca caratteristiche quali la semplicità, la coerenza logica, la solidità e la purezza formale, e per questo molto amata dai quei movimenti artistici che hanno assunto tali qualità estetiche come fondamento delle loro indagini.
La rassegna presenta un nutrito nucleo di opere appartenenti a una raccolta d’arte molto particolare, quella di Marli Hoppe-Ritter, il cui nome è legato a una delle fabbriche di cioccolato più note al mondo: la Ritter, appunto. Nipote del fondatore dell’azienda dolciaria tedesca, la Hoppe-Ritter ha iniziato a collezionare arte negli anni Ottanta, focalizzando la sua attenzione, nel corso del tempo, sul tema del quadrato. È così che da trent’anni, insieme al marito Hilmann Hoppe, acquista esclusivamente lavori che abbiano come protagonista quella forma che sua nonna aveva intuito essere perfetta per una tavoletta di cioccolato che potesse stare comodamente nelle tasche degli sportivi e che ha fatto la fortuna dell’impresa di famiglia.
Se la scelta di interessarsi a opere di questo tipo sia stata dettata solo dalla volontà di omaggiare la foggia dell’iconico prodotto che ha consacrato la Ritter alla fama internazionale o sia stata anche supportata da una manovra strategica per rafforzare ulteriormente l’identità aziendale, non possiamo saperlo. Quel che è certo è che il risultato è una collezione radunata con cura e competenza, costituita oggi da quasi milleduecento pezzi geometrico-astratti di artisti del XX e del XXI secolo che hanno interpretato il quadrato con una grande varietà di linguaggi.
A chi le chiede come sia nata la passione per questa figura geoemetrica, la Hoppe-Ritter racconta di come davanti ad alcuni dipinti dello svizzero Camille Graeser si sia resa conto di quanto il quadrato avesse una lunga tradizione nella storia dell’arte. Il nome da lei più citato è Kazimir Malevič, maestro russo fondatore della corrente Suprematista nonché autore di quel Quadrato Nero considerato dai critici «il punto zero della pittura», dove la forma in questione diventa «l’embrione di tutte le possibilità che nel loro sviluppo acquistano una forza sorprendente».
E non è quindi un caso che il primo lavoro a entrare a far parte della collezione sia stato un disegno di Malevič del 1915, il pezzo ancora oggi più antico della raccolta. A seguire sono state comprate opere di Josef Albers (la cui serie Omaggio al quadrato non poteva che ispirare fortemente la Hoppe-Ritter), di Max Bill, artista elvetico considerato uno dei massimi rappresentanti dell’Arte Concreta, di Johannes Itten, altro importante pittore svizzero e teorico del colore, e di Victor Vasarely, fondatore della Optical Art, solo per citarne alcuni.
Parte di questa preziosa raccolta ha trovato sede nel Museo Ritter, fatto costruire nel 2005 a Waldenbuch, non lontano da Stoccarda, proprio per dare una degna collocazione ai lavori. L’edificio, neanche a dirlo di forma quadrata, è immerso nel verde e nel profumo di cioccolato che proviene dalla vicina fabbrica, ed è stato inaugurato con una mostra personale di Marcello Morandini.
Della collezione Hoppe-Ritter, che tocca molti dei grandi movimenti artistici contemporanei (dal Costruttivismo al De Stijl, dal Concretismo zurighese alla Minimal Art), sono arrivate a Varese quaranta opere selezionate dalla curatrice Barbara Willert, direttrice del Museo di Waldenbuch.
Tra i lavori più interessanti esposti alla Fondazione troviamo un dipinto del già citato Camille Graeser dal titolo Caput Mortuum, un acrilico in cui la solida forma del quadrato instaura un rapporto dinamico con il colore, mantenendo in costante movimento la percezione dello spettatore. Poco lontano ecco Max Bill, presente in rassegna con una tela dei primi anni Settanta che affascina per l’armonia della composizione e per il raffinato gioco di contrasti cromatici. E poi ci sono Grazia Varisco, figura chiave dell’Arte Programmata e Cinetica, di cui si può ammirare l’opera Mercuriale, del 1967, e Peter Weber, artista tedesco di cui la mostra espone una delle impeccabili creazioni in feltro che assumono l’aspetto di austeri altorilievi.
Al piano superiore, nella luminosa stanza centrale, catturano la nostra attenzione il lavoro di Reiner Seliger, artista polacco che nel suo Senza Titolo, datato 2004, dispone meticolosamente in fila centinaia di gessetti per lavagna dando vita a un quadrato dal forte richiamo tattile, e quello dello scozzese Jim Lambie, autore di un Metal Box costituito da diversi strati di fogli di alluminio verniciati e piegati, a creare geometrie giocose dai colori vibranti. E la loro vicinanza alle rigorose opere in bianco e nero di Morandini collocate nella medesima sala crea degli accostamenti inediti che gratificano l’occhio e lo spirito.