In occasione della presentazione alla stampa della nuova Kunsthaus di Zurigo è stato ampiamente e orgogliosamente sottolineato il fatto che i quasi 5000 metri di superficie espositiva aggiuntiva di cui il museo può ora disporre, oltre a farne il più grande museo svizzero, abbiano consentito di aumentare la quota di dipinti e sculture appartenenti alla collezione esposti in permanenza. Si è infatti passati dal 10% al 17%. Una percentuale che rimane in ogni caso esigua, circa 680 pezzi su un totale di 4000, tanto più che questa cifra non tiene conto delle circa 95’000 opere grafiche oltre che delle fotografie e delle installazioni presenti nella raccolta. Va anche detto che quasi sempre i musei hanno, per ovvie ragioni, una struttura simile a quella di un iceberg e conservano nei propri depositi molti più oggetti rispetto a quelli che riescono a esporre in permanenza.
Alcune voci critiche, e tra queste figura anche quella dell’ex vice-direttore della Kunsthaus Guido Magnaguagno, hanno però fatto notare che gran parte degli spazi espositivi ottenuti con l’ampliamento sono stati destinati alla presentazione di opere che non sono di effettiva proprietà della Kunsthaus ma che appartengono invece a collezioni private.A fare bella mostra di sé nelle sale del nuovo edificio costato 206 milioni, di cui 118 a carico della Città e del Cantone di Zurigo, sono infatti le opere, quasi sempre di grandissima qualità – questo è unanimemente riconosciuto – di tre collezioni di proprietà privata che sono state depositate presso il museo in concomitanza con l’apertura della nuova sede: la collezione Merzbacher, la collezione della Fondation Hubert Looser e la collezione della Fondazione Bührle.Proprio attorno a quest’ultima e alle sue discusse origini negli anni della Seconda guerra mondiale, quando Emil Bührle era uno dei principali fornitori d’armi del regime nazista, sono divampate nelle scorse settimane aspre polemiche che pongono molti dubbi sull’opportunità di una simile operazione e che trovano il loro fondamento nelle indagini e nei quesiti posti in un volume dato alle stampe nel 2015 dallo storico Thomas Buomberger in collaborazione con lo stesso Magnaguagno.
Buomberger, che è stato il primo in Svizzera a mettere a fuoco la questione delle opere d’arte trafugate agli ebrei in un libro pubblicato nel 1998 che ha ormai fatto storia, individua all’interno della Collezione Bührle una ventina di opere dal pedigree lacunoso e dall’origine dubbia che potrebbero essere frutto di spoliazioni. Da un lato abbiamo quindi la Kunsthaus di Zurigo e la Fondazione Bührle, le quali affermano di aver fatto tutto il possibile per verificare la provenienza delle opere e che si dicono certe che, dopo le restituzioni già effettuate dallo stesso Bührle nel primo dopoguerra, non vi siano più all’interno della raccolta casi problematici, dall’altra troviamo Buomberger e Magnaguagno che ritengono invece che vi siano ancora una serie di opere che se non trafugate direttamente dai nazisti, sono però probabilmente state cedute dai legittimi proprietari per ragioni di necessità determinate dalle persecuzioni a cui gli ebrei furono sottoposti in quegli anni.
Se la scelta della Kunsthaus ci offre la possibilità di ammirare opere capitali di autori che hanno segnato la modernità quali Van Gogh, Cézanne, Monet, Degas o Picasso, e il cui valore complessivo – è forse bene ricordarlo – è stimato in circa tre miliardi, la posizione critica assunta da Buomberger e Magnaguagno ci ricorda che nel momento in cui ci abbandoniamo alla contemplazione estetica di un’opera non possiamo dimenticare le vicende, spesso drammatiche e violente, che ne hanno segnato i passaggi di proprietà e soprattutto le complesse questioni morali ed etiche che si pongono in ambito museologico. Come si fa ad ammirare da un punto di vista puramente estetico un dipinto appeso sulle pareti di un museo, sapendo che il suo proprietario è stato bruciato in un forno crematorio o asfissiato con i gas ad Auschwitz?
Consapevole dell’attenzione internazionale su un argomento come questo, la Kunsthaus ha cercato di trarsi di impaccio e di prevenire eventuali critiche allestendo una sala in cui sono disponibili la biografia e alcune informazioni sulla figura di Emil Bührle e sulla nascita della sua collezione, mentre in un’altra sala è esposta un’opera dell’artista francese Raphaël Denis dedicata al tema dell’arte trafugata. Tuttavia, l’insieme dà l’impressione di un compito svolto un po’ frettolosamente e senza troppa convinzione, anche perché le priorità erano indubbiamente altre. Come si sottolinea, con enfasi forse eccessiva, nel comunicato stampa, grazie all’arrivo della Collezione Bührle alla Kunsthaus, Zurigo diventa infatti il secondo centro europeo, dopo Parigi, per l’arte impressionista e postimpressionista.
A dire il vero, ci permettiamo di osservare noi, lo era già anche prima, perché la Collezione Bührle, seppur in una villa privata, è sempre stata conservata a Zurigo. Tuttavia questa preminenza nell’ambito dell’Impressionismo non riflette come nel caso della capitale francese la storia culturale e artistica del paese, ma piuttosto le vicende economiche e finanziarie di una borghesia ricca, ma indubbiamente anche colta, i cui affari e le cui acquisizioni artistiche sono stati sicuramente favoriti dalla peculiare posizione assunta della Svizzera nel contesto europeo anche nei periodi più bui che questa ha attraversato nel corso del Novecento. E come hanno dimostrato gli atti di contrizione storica a cui il paese è stato in parte obbligato negli ultimi anni, non si trattava certo di una posizione di assoluta, e in passato troppo a lungo mitizzata, neutralità.
Al di là dei singoli casi, per i quali non si può fare altro che auspicare da parte di tutti la massima trasparenza e l’apertura degli archivi agli storici, in modo tale che, dove ancora possibile, le opere vengano restituite ai legittimi proprietari, rimane comunque un fatto positivo che collezioni come questa, nate in un contesto privato e strettamente connesse alle possibilità economiche di chi le ha costituite, convergano verso delle istituzioni pubbliche. Anche perché nessun museo ha oggi la possibilità di acquisire con i propri mezzi opere i cui valori superano di gran lunga le disponibilità finanziarie di qualsiasi istituzione pubblica.
Il problema semmai, sono le modalità con cui avviene questo passaggio dal privato al pubblico, e proprio a questo riguardo l’operazione che sta alla base della nuova Kunsthaus appare quantomeno discutibile, perché, come abbiamo già ricordato, non si è trattato di una donazione ma di un deposito. (Continua)