I fantasmi di Simona Vinci

Come molti autori e registi prima di lei, anche la brava narratrice italiana è riuscita a dare una forma e un colore alle proprie paure e alla depressione
/ 16.10.2017
di Mariarosa Mancuso

La prima cosa che colpisce – in Parla, mia paura di Simona Vinci, titolo da prendersi alla lettera – sono le immagini cinematografiche. In Madre!, l’ultimo film di Darren Aronofski presentato alla Mostra di Venezia, vediamo una grande casa appena risistemata dopo un incendio da Jennifer Lawrence (che la abita assieme allo scrittore in crisi Javier Bardem, se no che film d’autore sarebbe?). Il legno del parquet trasuda sangue, anche se viene coperto dai tappeti. Simona Vinci scrive (meglio sarebbe dire «confessa»): «Vedevo l’impronta di piccole mani e piedi insanguinati apparire sull’intonaco come se la parete essudasse».

In Repulsion di Roman Polanski la reclusa Catherine Deneuve vede mani che uscivano dalle pareti per afferrarla. Simona Vinci scrive, a proposito della stessa casa con le impronte dei piedini insanguinati: «Lungo le scale, quando salivo e scendevo per andare da un piano all’altro, c’erano mani che mi sfioravano e qualcuno che mi soffiava sul viso con dolcezza».

In It di Stephen King – il romanzo prima del film e della serie, non è spoiler perché sta nelle librerie dagli anni 80, colpa vostra se non l’avete ancora letto, e del resto sapere che la Karenina si butta sotto il treno non rovina la lettura di Tolstoj – c’è un gigantesco ragno. Ancora Simona Vinci, dal suo libro dei sogni: «Il sogno ricorrente: la Ragna, mio talismano personale. L’incarnazione della mia paura. Gli occhi della Ragna, perché è chiaro che era una femmina, erano gialli e scintillanti. Consapevoli e impietosi, privi di sentimento».

Di passaggio, entrano Gus Van Sant e il suo film La foresta dei sogni, ambientato a Aokigahara, la foresta dei suicidi giapponese. E Fight Club – romanzo di Chuck Palahniuk e film di David Fincher: per l’anticamera del chirurgo plastico che Simona Vinci visita regolarmente, osservando gli altri pazienti in attesa, e paragonandoli a un gruppo di supporto.

Colpisce la convergenza con il cinema, ma non li abbiamo elencati per sminuire il libro. Al contrario: uno dopo l’altro, gli esempi mostrano la bravura dei registi, e la sincerità con cui Simona Vinci racconta i suoi dolori, la sua depressione, le sue allucinazioni. Perfino un tentativo di suicidio – aveva preparato la corda, per l’arrivo anticipato della coinquilina la nascose e finse di dormire vestita e truccata. Mostrano un nucleo – che osiamo definire «originario» – di paure e di immagini terrorizzanti.

Lo sa bene chi le ha provate, magari credendosi l’unico ad avere simili crisi o attacchi di panico. Chi non le ha provate è fortunato, ma deve sapere che non sono state inventate dai registi dei film horror. Né dai registi che come Ingmar Bergman accennano – per esperienza diretta, anche loro – all’«ora del lupo». Dal film con lo stesso titolo: «È l’ora in cui molta gente muore e molti bambini nascono, quando il sonno è più profondo. E quando gli incubi ci assalgono, e se restiamo svegli abbiamo paura».

Simona Vinci è stata coraggiosa. Ha seguito l’esempio di William Styron in Un’oscurità trasparente, di Ottiero Ottieri nei suoi versi e nei romanzi, di Matt Haig in Ragioni per continuare a vivere. Su un versante più teorico e letterario, vale la pena di ricuperare il bellissimo libro di Al Alvarez dedicato al suicidio di Sylvia Plath (che mise la testa nel forno) e di Virginia Woolf (che entrò nel fiume con le pietre nella tasche) e di molti altri: Il dio selvaggio, appena ripubblicato da Odoya.

Mon coeur mis à nu: secondo Charles Baudelaire era l’unico progetto serio in materia di letteratura. Simona Vinci tiene fede all’impegno, rievocando gli anni peggiori della sua vita, e poi racconta com’è riuscita a tenere a bada la bestia nera. Un chirurgo plastico e una psicoanalista. Un uomo e una donna. Uno che si occupava del corpo e l’altra della mente. La casa in città risultava ostile – e passeggiare a Bologna, con i portici, faceva stare ancor più male. Il giardino no, era un angolo di salvezza: Simona Vinci scrive delle piante e dei fiori come se fosse stata graziata.

Forse è vero che non si guarisce mai del tutto. Ma Simona Vinci continua a scrivere – in La prima verità, un’isola manicomio in Grecia dove venivano ricoverati malati psichiatrici e dissidenti, accennava già alla scintilla autobiografica da cui il libro era nato. E ha avuto un figlio, che accudisce con qualche tocco di originalità: «Ogni volta che temevo di non farcela, posavo il bambino urlante nella culla e accendevo l’aspirapolvere. Quel suono lo calmava e calmava me».