La costante dei primi film in competizione, nel concorso principale di Cannes, è la lotta al potere nelle sue varie forme.
È un filo rosso che percorre il bellissimo film francese Les Misérables di Lady Li, ambientato nella banlieue parigina. Il regista – al suo primo lungometraggio e ispiratosi alle sue esperienze giovanili – ha voluto rifare a modo suo e a quasi 15 anni di distanza La haine di Kassovitz. Ma non si tratta di un semplice remake, questo è un film vero, scritto bene, con attori convincenti e che non ti molla un secondo. Les Misérables racconta un giorno nella vita di Stéphane, un agente che arriva da un’altra città e si aggrega a due colleghi più navigati: Chris e Gwada. Poliziotti che usano le maniere forti per farsi rispettare e non si fanno scrupoli a far accordi con i malavitosi. Stéphane fa fatica ad accettare questa situazione, convinto com’è dei suoi valori e ligio a far rispettare la legge. Ma il nuovo arrivato capisce come gira il mondo da quelle parti e si adatta, fino a quando un incidente scatena l’ira di tutto il quartiere.
Eppoi quel riferimento al romanzo di Victor Hugo, così lontano nel tempo, ma così vicino nelle dinamiche sociali. Sembra quasi voler stanare lo Stato (ecco il potere) e volergli puntare il dito contro. Sembra quasi che gli stia dicendo: sono passati anni da La haine, secoli dai Miserabili, ma il degrado è sempre uguale. E ogni riferimento alle proteste sociali dei Gilets Jaunes è sicuramente voluto.
La lotta al potere è evidente pure in Atlantique di Mati Diop. Anche qui siamo in una banlieue, ma a Dakar, in Senegal. Un gruppo di operai di un cantiere enorme che non riceve il salario da mesi, decide di andarsene cercando di attraversare l’oceano alla ricerca di una vita migliore. Tra di loro anche il giovane Souleiman, innamorato (e ricambiato) dalla promessa sposa di un uomo ricco. Il viaggio finisce male e il fatto ha conseguenze inaspettate e misteriose come un incendio o presenze (quelle degli operai morti) soprannaturali. C’è tanta acqua in questo film, e se da un lato è un richiamo narrativo alla morte dei poveri operai, d’altro lato la si può leggere come volontà di pulire e purificare un sistema sociale che non funziona: dove i ricchi fanno costruire i palazzi e diventano sempre più ricchi e i poveri, che li costruiscono davvero, muoiono.
Un potere che viene combattuto anche in Brasile nel film Bacurau di Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles. In questo caso è una piccola comunità del Nord-Est del Paese che si unisce per combattere un feudatario locale. Così come nel film africano, anche in questo caso i fenomeni misteriosi non mancano: il paese scompare dalle carte geografiche, i telefonini non hanno più campo e alcuni misteriosi uomini arrivano nel paese con intenzioni sospette. Meno riuscito degli altri – soprattutto nella seconda parte quando si prende un po’ troppe libertà narrative mescolando il western al fantastico e al sottogenere dei film sui sopravvissuti – fa pace con lo spettatore nel finale grazie al ritorno al realismo.
Lasciando la competizione principale ed entrando con un tuffo a testa in Un Certain regard, la questione del potere viene interrogata anche da una delle poche presenze svizzere sulla Croisette: la coproduzione animata Les hirondelles de Kaboul, realizzata da due donne, Zabou Breitman et Eléa Gobbé-Mévellec. Siamo nel 1998 e la capitale afgana è sotto il dominio dei talebani. In mezzo alle macerie della guerra e sotto questo feroce regime, vivono due coppie il cui destino è segnato, ma sulle quali volano le rondini, un piccolo segnale di speranza. Una bellissima e crudele fiaba – tratta dall’omonimo romanzo di Yasmina Khadra – disegnata con grazia e dai toni pastello. Un acquarello tenue che si contrappone alle uccisioni e alle barbarie commesse dai talebani.
Ma riemergiamo dalla seconda sezione del festival e torniamo al concorso principale, con un accenno a un altro film molto atteso: The Dead Don’t Die di Jim Jarmusch (nelle nostre sale a metà giugno) presentato in apertura di questa 72esima edizione del festival. Un omaggio a un genere (quello degli zombi) e ad alcuni degli autori ai quali Jarmusch ha detto di ispirarsi: da George A. Romero a Dario Argento, passando per John Carpenter e arrivando a Sam Raimi. In questo caso la lotta al potere non è una questione politica, secondo il regista, ma è contro le multinazionali. Infatti il messaggio è rivolto ai cittadini che hanno a cuore le sorti del pianeta: «Mi preoccupa l’inquinamento – ha detto Jarmusch – dobbiamo renderci conto di dove viviamo e che cosa stiamo facendo alla Terra, ma io resto positivo e confido nelle giovani generazioni».