Quando nel 1961 l’ex funzionario del Terzo Reich Adolf Eichmann fu processato dalle autorità israeliane per aver commesso crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra dichiarò più volte di «aver fatto il suo dovere, di aver obbedito non soltanto a ordini ma anche alla legge». Poi, man mano che il processo procedeva, sostenne una tesi, per certi versi, sconcertante.
Disse «con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principi dell’etica kantiana (...) e con sorpresa di tutti (...) se ne uscì con una definizione più o meno esatta dell’imperativo categorico: “Quando ho parlato di Kant, intendevo dire che il principio della mia volontà deve essere sempre tale da poter divenire il principio di leggi generali”». Hannah Arendt, che, come è noto, seguì il processo come corrispondente del «The New Yorker» (i suoi articoli avrebbero composto poi il fondamentale La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme) non mancò di evidenziare come il criminale nazista avesse piegato «la formula kantiana» al suo volere: per Eichmann infatti la radice delle sue azioni non aderiva a una possibile legge universale, ma a quella di Adolf Hitler.
Al di là della forzatura messa in atto dall’imputato, è però interessante notare come questi, per giustificarsi, chiamasse in causa nientemeno che il pensiero illuminista – certo uno dei più influenti per le epoche successive. Questa sua affermazione «veramente enorme» da un punto di vista ideologico sembra ora trovare, se non una corrispondenza, almeno un’assonanza con quanto sostenne uno dei grandi sociologi del nostro tempo: Zygmunt Bauman (Poznań, 1925 – Leeds, 2017).
Recentemente scomparso a novantadue anni, Bauman, nel 1989, con lo sconvolgente saggio Modernità e Olocausto (il Mulino, 1992), come la stessa Arendt, Theodor W. Adorno e Emmanuel Levinas, ha fornito una chiave di interpretazione della Shoah che, tuttora, lascia attoniti per profondità di indagine: a suo avviso, contrariamente a quanto si sarebbe portati a credere, la politica dello sterminio nazista non nacque in seno alla barbarie, ma al mito della ragione; e, di conseguenza, l’Olocausto non rappresenterebbe una «temporanea deviazione dalla via maestra della civilizzazione», ma un prodotto – e un fallimento – delle «logiche della modernità».
Nel mettere in luce i rapporti tra pratiche razziste e modernità, ecco che Bauman sottolinea il peso di quell’eredità che, estremizzata, assieme a una imponente burocratizzazione, avrebbe condotto la Germania al sogno della razza e al genocidio: «con l’illuminismo», leggiamo, «si era giunti all’incoronazione di una nuova divinità – la Natura – nonché alla legittimazione della scienza come suo culto ortodosso, e degli scienziati come suoi profeti e sacerdoti. Tutto, in linea di principio, era stato spalancato all’indagine oggettiva; tutto, in linea di principio, poteva essere accertato in termini affidabili e veritieri. Verità, bontà e bellezza, le cose esistenti e quelle auspicabili, erano divenute oggetto legittimo di sistematica e minuziosa osservazione».
Considerata la «concezione dell’ingegneria sociale» del nazionalsocialismo come «compito scientificamente fondato mirante all’istituzione di un nuovo e migliore ordine» – un compito che comporta la cancellazione di ogni elemento disturbante – vediamo allora il razzismo, inteso come insieme di pratiche e non come mera xenofobia, trovarsi in sintonia coi principi di una razionalizzazione delirante, che rammenta i folli monologhi dei personaggi di Sade (non a caso, proprio mentre la Arendt scriveva il suo reportage, Jacques Lacan affrontò questioni simili in Kant con Sade).
Bauman non intende mettere sotto processo la scienza né, tanto meno, quella sete di verità che contraddistingue lo scienziato; ma è fermo nell’indicare che un certo pensiero scientifico, con la sua indole manipolatoria, col suo porsi al di sopra delle emozioni, seppure involontariamente aprì la strada all’alienazione morale che caratterizzò la politica dello sterminio. È noto che senza gli apparati organizzativi, scientifici, tecnici e amministrativi della società moderna l’Olocausto non sarebbe stato lo stesso. Ciò non comporta che questi – i quali, ancora, regolano le nostre vite – debbano essere demonizzati perché portatori in nuce della devastazione; significa piuttosto che essi non possono essere considerati l’autonomo sistema di valori su cui fondare un ordine.
È questo che a Bauman preme sottolineare: il pericolo non è scampato. Anche se la Shoah rappresenta un caso particolare, sorto da un insieme di complesse concause, la possibilità che fenomeni simili si ripetano è più che un’ipotesi (Primo Levi sosteneva che può sempre accadere – e forse, in altri modi, accade).
Riflettendo sul progetto di un gruppo di scienziati che, nel 1966, fornì «un campo di battaglia elettronico ad uso dei generali impegnati nella guerra del Vietnam», Bauman si chiede, visti gli ultimi sviluppi delle tecnologie informatiche, quali ulteriori e raffinate atrocità l’uomo sarà ancora in grado di commettere alienandosi in nome dell’efficienza. Esiste forse un filo rosso che lega il massiccio impiego dei droni da guerra agli strumenti delittuosi della Seconda guerra mondiale?