Diciamolo pure, Harry Styles, classe 1994, cantautore e attore britannico, è conosciuto più per i suoi abbigliamenti stravaganti e baroccheggianti che per la sua musica. Una sorta di Bowie mainstream osannato dalle folle per la sua attitudine apparentemente rilassata nei confronti di una mascolinità espressa attraverso abiti volutamente androgini che sembrano prendersi gioco del binarismo di genere. Al di là delle apparenze, quello che conta davvero sono le rivendicazioni (o la loro assenza) che animano la messa in scena di un corpo diventato inevitabilmente pubblico, un corpo che seppur lottando per la propria autonomia non rinuncia ai privilegi e al glamour dello show business. L’intento, sia chiaro, non è mettere a nudo la sua vita privata violando così un diritto alla privacy che dovrebbe in ogni caso essere garantito, ma piuttosto scovare quanto di sincero e spontaneo si celi dietro un’attitudine queer mai chiaramente rivendicata.
Il personaggio Harry Styles nasce nel 2010 con la boy band One Direction, quintetto che incarna una mascolinità inoffensiva e mansueta da bravi ragazzi. Elemento chiave di questo gruppo creato a tavolino, Harry Styles si presenta al pubblico vestito da baby rocker, avviluppato in eleganti completi Saint Laurent firmati Hedi Slimane che gli donano un aspetto al contempo intrigante (per le adolescenti che lo osannano) e rassicurante (per le loro madri). Superata la fase adolescenziale, Styles si reinventa incarnando un nuovo personaggio più maturo e sicuro di sé. Questo porta con sé un cambio radicale d’immagine che gli permette di attirare un pubblico nuovo, più vasto ed esigente. È proprio in questo momento cruciale della carriera che il suo look si trasforma in quello che conosciamo oggi: un misto di androginia, colori eclatanti ed eleganza seducente dal sapore beatnik. Una trasformazione profonda che gli permette di liberarsi dalla cappa soffocante della boy band e forgiarsi una nuova immagine (potremmo quasi parlare di brand) più adatta al suo percorso da solista: libera, ingenua e ammiccante nei confronti del mondo LGBTIQ+ e dei suoi codici estetici (boa di struzzo, una manicure sapientemente messa in scena o ancora un trucco che ricorda i momenti gloriosi del glam rock).
Certo, Styles non è la prima pop star che decide di «sporcare» la sua immagine con lo scopo di rilanciare la propria carriera (David Bowie o Prince ne sono un esempio emblematico) ma è stato forse quello che ne ha tratto i maggiori benefici. Le grandi marche, Gucci in primis, hanno immediatamente saputo approfittare di questo cambiamento di stile descritto come rivoluzionario e controcorrente, una miniera d’oro per un mercato della moda alla ricerca costante di nuove icone. Non bisogna dimenticare che nel 2020 Harry Styles è stato il primo uomo ad apparire sulla copertina di «Vogue America» e l’ha fatto agghindato con un vestito a balze dal sapore vittoriano. Il suo look ha suscitato un’ondata di reazioni da parte dei media e del pubblico ma anche di alcuni politici preoccupati per il futuro della mascolinità (egemonica ovviamente).
A difendere Styles ci ha pensato la ex fiamma Olivia Wilde presentandolo come un uomo «moderno, privo di mascolinità tossica, icona della sua generazione e quindi del futuro del mondo». Nientemeno! A questo punto è lecito chiedersi cosa si nasconda davvero dietro le sue scelte sartoriali che pretendono di iflettere una nuova mascolinità queer e fluida. Basta forse l’abito per cambiare gli stereotipi e i preconcetti legati al genere e alla sessualità? Indubbiamente ciò che Styles mette in scena è una performance di genere, la rappresentazione di un personaggio che sembra abbattere gli stereotipi legato al binarismo senza però intaccarne l’essenza profonda. Nell’articolo pubblicato da «Vogue America», l’ex One Direction, riferendosi al suo stile, alla sua immagine, sessualmente ambigua, parla in effetti spesso di «gioco» e di «divertimento», un «costume da super eroe» che lo difende dal mondo: «Voglio che le cose abbiano un certo aspetto. Non perché mi fanno sembrare gay, o etero, o bisessuale, ma perché penso che sia cool. E soprattutto, non so, penso che la sessualità sia qualcosa di divertente. Onestamente? Non posso dire di averci pensato più di tanto».
Che significato bisogna dare ad affermazioni tanto disinvolte pronunciate da un uomo cisgender e presumibilmente etero (Styles non ha mai affermato né negato di esserlo) che si impossessa però dell’estetica queer? Cosa significa per lui questa parola e quale legame intrattiene con la comunità LGBTIQ+? Le sue affermazioni ci spingono a credere che il queer non sia per lui che un gioco, un modo cool di presentarsi al mondo senza però pagare il prezzo di una diversità che non ha mai veramente rivendicato. Il suo ridurre le rivendicazioni delle minoranze sessuali e di genere a un gioco ludico senza grande sostanza dimostra, attraverso una certa immaturità con ampio margine di crescita, quanto l’immagine di sé che vuole dare al mondo sia ancora vacillante e controllata da uno star system che si nutre della diversità senza incarnarne le lotte. Indubbiamente, rompere gli stereotipi legati alla moda «maschile», proporre un’immagine alternativa della rock star è lodevole per non dire necessario, ma non bisogna dimenticare cosa significa infrangere davvero le regole, qual è il prezzo (salato) che molti e molte hanno pagato per la loro diversità. Styles ha certamente liberato la parola (e arricchito il guardaroba di molti) ma se si vuole davvero trovare dei modelli alternativi alla mascolinità egemonica è sicuramente meglio cercarli altrove. Alok Vaid-Menon, Lauren John Joseph, Jonathan Van Ness (in un contesto più mainstream), Ivo Dimchev, Krassen Krastev o Yougo Girl (per restare in Svizzera) ne sono un esempio emblematico. Tocca a noi ora fare la nostra scelta.