Nella terza messinscena di Amleto firmata da Antonio Latella, le parole del protagonista (che qui si chiama Hamlet, come nel testo originale) sono recitate da una donna (la giovane Federica Rosellini). L’idea non è nuova. In Italia l’avevano già messa in atto Giacinta Pezzana (1878) e Emma Gramatica. Fuori d’Italia, le più famose interpretazioni en travesti del principe di Danimarca sono quella di Asta Nielsen (in un film del 1921 che si basava sulle teorie di un professore americano, secondo il quale Amleto era una donna allevata come un uomo per motivi dinastici), e quella impavidamente proposta nel 1899 dalla cinquantaseienne Sarah Bernhardt. A proposito della quale, in una delle lezioni su Shakespeare tenute nel 1947 presso la New School for Social Research di New York, W.H. Auden ebbe a dire: «Singolarmente, tutti cercano di identificarsi con Amleto, comprese le attrici – e fu proprio mentre recitava nei panni di Amleto che Sarah Bernhardt, non mi duole affatto ricordarlo, si ruppe una gamba».
Spero di tutto cuore che Federica Rosellini non si rompa una gamba, ma temo che possa riportare seri danni a entrambe le rotule, dato che nelle prime due ore di spettacolo è costretta a tenerle ininterrottamente poggiate su un inginocchiatoio. Ma perché una donna nei panni di Amleto? «Per me» ha detto Latella «l’Hamlet del XXI secolo va oltre la sessualità, oltre la distinzione donna/uomo, per approdare a una condizione altra. […] nei classici le parole non hanno genitali, volano talmente al di sopra di tutto, da fare la differenza.»
Personalmente, penso che «grado e specie di sessualità di un uomo», come ha scritto Nietzsche, «si estendono sino all’ultimo vertice del suo spirito». E se le parole dei classici non hanno genitali, come afferma Latella, i personaggi dei classici (io sono tra coloro a cui interessano i personaggi, non i «vettori del testo» di cui parla il regista) sicuramente li hanno, e in qualche caso sono assai vistosi: ad esempio quelli del petroniano Ascilto, che apparendo tutto nudo ai bagni suscita l’applauso di una folla ammirata e deferente (Satyricon, 92, 9).
È stato detto che il personaggio Amleto, e l’opera drammatica di cui è il protagonista, costituiscono uno dei più alti e intensi momenti di autocoscienza della civiltà occidentale. E tuttavia, alla domanda «chi è Amleto?» non è mai stata data una risposta convincente. Lo dimostra il fatto che da quattrocento e più anni è oggetto di innumerevoli interpretazioni, rimodellamenti e parodie. Oggi, a mio parere, chi voglia proporre un’interpretazione che sia di qualche interesse e novità è comunque tenuto a essere chiaro, per dirla in termini latelliani, circa la natura dei «genitali» di Amleto: che sono quelli di un uomo. Naturalmente, non è necessario esibirli in modo plateale, come il regista napoletano ha fatto con alcuni personaggi maschili di certi suoi precedenti spettacoli.
Nella prima parte della messinscena, l’Hamlet di Federica Rosellini (che ha capelli ondulati e lunghi fino alla vita) indossa un’ampia tunica bianca; nella seconda, un abito nero e inequivocabilmente femminile, sovrapposto a quello precedente (contrapposizione e sovrapposizione di colori e fogge dei costumi sono proprie anche degli altri personaggi). Povera di timbri, la sua voce non si fa neppure apprezzare per varietà di toni (sono ancora impressionato, ad esempio, dalla sbrigativa piattezza con cui pronuncia le memorabili battute sul teschio di Yorick). Ciò dipende sicuramente anche dal fatto che la Rosellini, aderendo al disegno registico di non dare vita a un personaggio, ma di dare voce a un «vettore del testo», ha cercato di astenersi per quanto possibile (al pari degli altri attori) da inflessioni peculiari, sottili sfumature emotive e sentimentali, sottolineature inequivocabili. Di conseguenza, l’Hamlet di Rosellini-Latella, in quanto personaggio, ha scarso rilievo e colore. Per me, quindi, è poco interessante.
Intervalli compresi, lo spettacolo dura sei ore e quaranta (anche perché il testo tradotto da Federico Bellini non ha subito tagli) e si svolge per intero in piena luce (come La tragédie d’Hamlet di Peter Brook, anno 2001). Naturalmente, sono molte le cose che meriterebbero un commento, a cominciare dalla drammaturgia di Linda Dalisi, che rende poco coinvolgente l’azione narrativa. Ho preferito focalizzare la figura del protagonista en travesti, perché è quella più pubblicizzata dai titoli giornalistici.