«Finché resta carne, finché c’è un osso ‒ almeno il sacro ‒ c’è fornicazione. Un fratello e una sorella in Cristo non dovrebbero conoscere che ricongiungimenti pneumatici; non fu così. Perché quando Eloisa, vent’anni dopo Abelardo, fu calata accanto a lui nel sepolcro, Abelardo aprì le braccia e le rinchiuse sopra di lei, e in quella posizione di Eros tumulario rimasero, finché non fu tornata polvere la polvere». Mi piace ricordare Guido Ceronetti a pochi giorni dalla morte con questo formidabile apologo, pubblicato una prima volta nel 1971 nell’edizione delle Lettere curata da Federico Roncoroni per l’editore Rusconi (poi anche nell’Occhiale malinconico, Adelphi, 1988). Non già perché cristallizzi in poche righe il suo ben noto pessimismo, anzi, proprio per il contrario, per quella inevitabile lode della vita che sempre è insita nel flirtare con la morte, nel sottostare alle mannaie del tempo, alla finitudine stessa dell’esistenza umana.
E spiace, per restare in tema, che nemmeno Giovanni Orelli sia più, perché suoi erano stati i maggiori affondi nell’opera di Ceronetti (poeta, saggista, uomo di teatro, formidabile traduttore dell’ebraico biblico) che si siano potuti leggere a queste latitudini, in una terra alla quale lo scrittore di Cetona (Siena, ma le sue origini erano piemontesi) aveva deciso di affidare per tempo le sue carte personali, conservate sin dal 1994 nell’Archivio Prezzolini della Biblioteca Cantonale di Lugano. Quella storia, assieme a molte altre che legavano la sua figura magra e silenziosa alla realtà culturale del Canton Ticino, tra il Teatro Foce e la redazione del «Giornale del Popolo» (con Manuela Camponovo), si ricostruisce oggi grazie al bel fascicolo di «Cartevive» stampato nel 2007, in occasione dei suoi ottant’anni.
Ma per allargare un poco il quadro, Ceronetti fu contemporaneamente uomo del mondo, feroce polemista sui quotidiani nazionali italiani, specie contro la massiccia urbanizzazione del territorio, estensore di rubriche e interviste spiazzanti, sovente al limite del sopportabile (ne seppe qualcosa anche Michele Fazioli in un difficilissimo Controluce) e uomo fuori dal mondo, come era giusto che fosse per uno scrittore abituato a dare del tu al libro dei Salmi e a quello del Qohelet, a Catullo, Marziale, insomma a un selezionatissimo gruppo di testi che condensavano in loro la sua stessa visione dell’esistenza. Nei suoi contributi saggistici e nelle sue traduzioni era andato sempre più identificandosi con un editore (Adelphi) che ne piangerà a lungo la scomparsa, tanto aderenti erano i suoi titoli alla linea editoriale tracciata con forza da Roberto Calasso. L’ultimo soltanto pochi mesi or sono, ventotto traduzioni da Orazio che diventano ora, giunto all’estrema «contrazione della vita», il suo testamento.