Francesca Mazzoleni con il premio autoprodotto (Instagram)


Guardiane del Tevere

Intervista a Francesca Mazzoleni, la regista del film che si è aggiudicato il Sesterzio d’oro al festival Visions du réel di Nyon
/ 25.05.2020
di Laura Marzi

Abbiamo incontrato Francesca Mazzoleni, vincitrice del sesterzio d’oro al Festival di Nyon Visions du réel, la cui cinquantunesima edizione si è svolta interamente online dal 17 aprile al 2 maggio scorsi. Il documentario prodotto da Morel Film con Patroclo Film con cui la regista italiana si è aggiudicata il prestigioso riconoscimento, Punta Sacra, racconta la comunità dell’Idroscalo nel comune di Ostia. Si tratta delle famiglie che hanno resistito allo sgombero del 2010 e che sono rimaste a vivere nelle loro case di lamiera sul lembo di terra alla foce del fiume Tevere.

Prima di tutto, come va il confinamento e cosa comporta vincere un premio così importante quando non si può neanche uscire di casa?
Beh, sicuramente ha reso la solitudine un po’ meno complessa e un momento importante come la condivisione del proprio film profondamente intimo. Non credo tornerà mai più un’anteprima con questo livello di connessione e intensità tra tutti: spettatori, «attori», amici da ogni parte del mondo che si trovano a condividere la stessa storia nello stesso momento. Chiaramente tutto questo è una soluzione di compromesso e ne sto vedendo i lati positivi, Punta Sacra è un film pensato per essere visto in sala e non possiamo fare altro che attendere il momento delle riaperture…

Il festival di Nyon è stato trasmesso online: lo staff ha fatto questa scommessa, organizzando un’intera edizione web, con un successo di pubblico notevole. Cosa ne pensi?
È stata una scommessa pionieristica ed è stato tutto organizzato con enorme professionalità e velocità. Non so come abbiano fatto. È andato tutto benissimo e ho avuto modo di vedere con attenzione e tranquillità tantissimi altri documentari molti belli. Il premio oltretutto me lo sono fabbricata da sola, rubando i colori dallo studio di mio padre come facevo da piccola. È stato molto bello. È un pesce colorato con una base di cartone. Ora lo conservo sulla libreria, è un portafortuna.

Nel tuo film colpisce molto la fiducia totale delle persone nei confronti della telecamera, tanto che essa non pesa, non crea distanze tra gli spettatori e le protagoniste. Come ci sei riuscita?
La sensazione che avevo quando le varie persone della comunità mi facevano entrare nelle loro case era di continua sorpresa, non sapevo mai a cosa sarei andata incontro, ed era una intromissione in una intimità piccola e fragile, un enorme gesto di fiducia. Così tutto il documentario rincorre questa sensazione e prova a riproporla: l’entrare di casa in casa, di vita in vita, per spiarla un po’, condividendo le lotte, le confessioni, le liti.

È un film fatto insieme alla comunità. Non eravamo mai lì per rubare immagini, ma per vivere un pezzetto di vita alternativa, durante la quale, quando arrivava il momento giusto, si poteva anche accendere la telecamera. Gran parte della bellezza vissuta in quel periodo di riprese, è fuori campo. Ma credo che questa cosa si senta e arrivi lo stesso.

Perché dell’idroscalo hai deciso di raccontare una storia di donne?
Se si guardano le immagini dello sgombero delle 35 case del 2010, avvenuto senza preavviso una mattina gelida, si vede questo: oltre mille agenti – tra Protezione civile, polizia, carabinieri, vigili urbani, vigili del fuoco, finanzieri, Digos, – e davanti a loro in prima fila c’erano solo le donne, donne e figli con le mani alzate a difendere le proprie case. Quell’immagine, che si intravede in una schermata alla fine del film, è emblematica del tipo di «donne guerriere» e di società di stampo matriarcale che segna la vita quotidiana e politica del luogo. Ormai fare una storia al femminile può sembrare quasi una scelta ricercata, qui è avvenuto in modo naturale e organico. Gli uomini sono al lavoro, le donne gestiscono tutto. E il loro modo di confrontarsi, anche generazionalmente, per me era bellissimo.

Come hanno reagito alla notizia della vittoria?
Festeggeremo. Non l’abbiamo potuto fare ancora insieme, ma lo faremo presto. Ho ricevuto un lunghissimo vocale di Franca Vannini, tra le principali protagoniste, che urla al telefono che ce l’hanno fatta. Che questo lavoro è una vittoria sull’immagine del luogo da sempre calpestata. Come dice il prete Don Fabio nel film: «non vogliamo essere proprietari della Foce del Tevere, possiamo esserne semmai i guardiani». Ed è vero. Solo chi vive lì da anni e si prende cura di quel pezzetto di terra conosce davvero le esigenze dello spazio e il rapporto unico con la natura, con il fiume e il mare che li circondano.