Guardare per riflettere

Le proposte più interessanti del Festival sembrano provenire anche quest’anno da Stati Uniti e Oriente
/ 13.08.2018
di Nicola Falcinella

La più grande kermesse cinematografica del nostro Paese, manifestazione attesa dagli amanti del genere, negli ultimi anni ha vissuto una forte trasformazione e la 71esima edizione, chiusasi sabato sera, ha segnato una fase di passaggio, grazie all’annunciata partenza di Carlo Chatrian alla volta di Berlino. Lo storico festival dovrà quindi prossimamente ridefinire la propria identità per essere in grado di affrontare le nuove sfide senza perdere la propria peculiarità di luogo privilegiato dove scoprire e riscoprire i film. Il rischio è che, anche a Locarno, l’happening e il contorno finiscano per prevalere sul cinema e sulle opere presentate. A volte si ha l’impressione che non bastino singoli lavori di alto profilo per contrastare l’effetto di eventi che vivono solamente in funzione di sé stessi e della bolla che si creano intorno. Se il cinema sta cambiando velocemente, i festival devono stare al passo, ma non per forza adeguarsi.

Anche stavolta le pellicole più interessanti sono arrivate dall’Oriente e dall’America. Il coreano Hong Sang-Soo, già Pardo d’oro nel 2015 con Right Now, Wrong Then, è tornato al festival con Hotel by the River un’altra riflessione sulla vita, l’amore e l’arte, che stavolta prevede anche la morte. Sembrano spunti da nulla, eppure il cineasta asiatico riesce a trarre da episodi quotidiani apologhi deliziosi, divertenti e toccanti. Un poeta è ospite in un albergo sul fiume Han, dove lo raggiungono i due figli, uno dei quali fa il regista. Nella stessa struttura ci sono anche due giovani amiche. Si incontrano, si riconoscono, parlano di arte, sentimenti e famiglia. Per certi versi è un addio, per altri un’apertura. Un film essenziale, in bianco e nero, minimalista nel concentrarsi sui dialoghi e le relazioni, con una dose di autoironia: Hong parla a tutti, è un autore che, più di nuovi premi, avrebbe bisogno di passare in Piazza Grande per farsi conoscere e apprezzare da un pubblico più ampio.

Proviene da Singapore A Land Imagined, secondo film di Yeo Siew Hua. Una sorta di Chinatown di Polanski girato alla Lynch con sequenze che ricordano Wong Kar-Wai. Ci sono molte altre suggestioni, ma il film non è una scopiazzatura, bensì un modo originale e intrigante per raccontare una terra immaginaria strappata al mare, il senso di smarrimento per la trasformazione dei luoghi, la solitudine e le difficili condizioni di lavoro e vita degli immigrati. Un operaio con la passione del gioco scompare e un ispettore indaga su di lui, in una storia visionaria e allucinata nella quale si sogna da insonni.

Uno dei film più discussi del festival è stato naturalmente La flor dell’argentino Mariano Llinas, e non solo per le 14 ore di durata. L’opera omaggia la storia del cinema alternando i generi, e nell’arco del suo sviluppo cresce diventando sempre più libera; rappresenta anche una grande prova per le quattro attrici – Elisa Carricajo, Pilar Gamboa, Valeria Correa e Laura Paredes – che interpretano tutti e sei gli episodi in ruoli differenti.

Tra le belle sorprese in concorso segnaliamo Genèse del canadese Philippe Lesage, una storia di primi amori  tra esuberanza, musica e delusioni, e il generoso Diane di Kent Jones, commedia un po’ surreale e carica di umanità che ruota intorno al personaggio del titolo. Diane è una donna di mezz’età che ha fatto parecchi errori nella vita, ma ogni giorno percorre le strade intorno al paese per aiutare le persone comuni, come se dovesse rimettere le cose a posto e superare incomprensioni e tradimenti del passato.

Americano anche il meglio della Piazza Grande, dalla scoppiettante commedia grottesca che prende in giro i razzisti BlacKkKlansman di Spike Lee, all’azione di The Equalizer 2 di Antoine Fuqua. Il secondo ha fatto registrare il picco di spettatori dell’annata, con 6900 presenze nel primo sabato sera, un dato che può essere letto anche come un campanello d’allarme per un’arena capace in passato di ospitare anche ottomila persone in occasione degli eventi più attesi. Denzel Washington si mette in gioco come attore e come regista cercando di essere un esempio per i giovani afroamericani. Alla stessa stregua del suo giustiziere proustiano McCall (che si confronta con un giovane aspirante disegnatore) l’attore offre opportunità di riflessione, convinto che si possa sfuggire a un destino di violenza anche quando sembra già scritto. Ethan Hawke, che ha ricevuto l’Excellence Award per una carriera eclettica e intelligente (da L’attimo fuggente ai film di Richard Linklater, da Training Day dello stesso Fuqua a Gattaca, senza dimenticare il recente First Reformed) ha portato il suo terzo lavoro da regista, Blaze. Un film biografico fuori dagli schemi che ritrae il semi-sconosciuto cantante «country western» Blaze Foley, ucciso negli anni ’90. Una storia di autodistruzione, di musica e d’amore, molto texana e un po’ nostalgica, un film forse troppo lungo ma empatico con i personaggi.

Coproduzione italo-ticinese è L’ospite di Duccio Chiarini, già noto per Short Skin, una commedia generazionale, piccola e sincera, divertente e delicata. Guido e Chiara sono due trentenni che convivono e cercano di reggere alla precarietà lavorativa. All’improvviso la loro coppia va in crisi e anche i loro amici e genitori sembrano faticare nel far durare nel tempo i sentimenti.

Quanto ai ritratti di giovani, va segnalato il documentario L’époque di Matthieu Bareyre nei Cineasti del presente. Ventenni parigini di oggi, dopo gli attentati del 2015 e 2016, tra divertimento e impegno politico, tra aperitivi e scontri nelle banlieues, intervistati e mostrati in modo mai scontato.