La locandina del film di Greta Gerwig


Greta Gerwig, dai mumblecore agli Oscar

Probabilmente senza l’affare Weinstein il film della pur brava regista californiana non avrebbe fatto tanta strada
/ 19.03.2018
di Fabio Fumagalli

**(*) Lady Bird, di Greta Gerwig, con Saoirse Ronan, Laurie Metclaf, Tracy Letts, Lucas Hedges (Stati Uniti 2017)

Fra generali osanna, Lady Bird conferma la personalità di Greta Gerwig, classe 1983 e al suo primo film da regista. L’attrice è cresciuta in seno al mumblecore, movimento indipendente del cinema americano nato all’inizio dei Duemila, che ci ricorda come si possa girare qualcosa di significativo nel paese di Hollywood anche se si hanno solo quattro soldi. Porta il nome della Garbo, Greta Gerwig, ma è nata a Sacramento, la capitale della California, che lei ricorda con la concittadina romanziera Joan Didion: «chiunque parli di edonismo californiano non ha mai trascorso un Natale a Sacramento». Greta s’iscrive a letteratura e filosofia, si afferma in danza classica, recita in un musical.

Scopre il cinema: dopo un film modesto di John Travolta finirà per amare Fellini, Truffaut e il cinema francese. Cresce, sempre in attesa di fuggire a Londra o New York, e nel frattempo diventa – e sono sempre in più a notarlo – quanto di meglio succeda al cinema indipendente americano. Un’attrice vieppiù carismatica ma inserita in un filone tuttofare, che la porta ad essere anche sceneggiatrice, co-regista e produttrice. Partendo dai piccoli film di Swanberg e Duplass presto è con Natalie Portman in Sex Friends; nel 2012 poi è protagonista del film forse più deludente di Woody Allen, To Rome With Love. Il passo da musa tuttofare del mumblecore è però compiuto: diventata nel frattempo la compagna di Noah Baumbach, Greta incanta nel suo ottimo Frances Ha. Prima di sedurre Al Pacino in The Humbling; e di apparire in un ruolo comico alla Berlinale, con Julianne Moore in Maggie’s Plan. Seguirà lo splendido Jackie di Pablo Larrain, nel 2016; quand’era ormai giunto il tempo di passare dall’altra parte della cinepresa.

Non è di certo insolito che un attore si affidi al proprio vissuto esordendo alla regia; ancor meno, che scelga di raccontare il passaggio sempre delicato all’età adulta. Più clamoroso, che Lady Bird si affermi dapprima ai Golden Globes come miglior commedia e migliore attrice protagonista; finendo poi, come capita, per ottenere ben cinque nomination agli Oscar. E ricordandoci allora come, nell’arco di 89 anni, la corsa a quella della Miglior Regia sia stata accordata a una donna per sole misere quattro volte: a Lina Wertmüller, Jane Campion, Sofia Coppola e Kathryn Bigelow. La sola a trasformarla nell’Oscar del 2010 grazie a The Hurt Locker.

Un percorso, quello del piccolo Lady Bird, rallegrante: ma che forse, senza la faccenda Weinstein, sarebbe andato altrimenti. Questa simpatica storia di formazione deve troppo alle due attrici che reggono bravamente il confronto madre/figlia. La protagonista Saoirse Ronan è una fonte continua di disinvolta leggerezza; e Laurie Metcalf, nel ruolo della madre tutt’altro che scostante e testarda come appare, l’altra rivelazione.

Senza la loro freschezza e quella di tutto il cast, il pluridecorato teen movie non si sarebbe discostato più di tanto da quelli che l’hanno preceduto da generazioni. Difficoltà nel comunicare e ballo di fine anno, sogni di grandezza e perdita della verginità, l’amica che tradisce e l’amico che si rivela gay, i crocefissi alle pareti dell’educazione cattolica: tutto rispettabile e sincero, ma tanto da sfiorare l’Oscar?