Godard è uno di quegli artisti che non lascia certo indifferenti: ci sono quelli che lo osannano come il maestro del cinema moderno e quelli che proprio non possono sopportarlo, considerandolo troppo pretenzioso e «grande gueule» come direbbero i francesi. Detto questo, e al di là dei gusti individuali, Jean-Luc Godard è e rimarrà sempre una delle figure più complesse e controverse della storia del cinema, maestro di quella che è stata definita come la «nouvelle vague» e portavoce di un modo di fare cinema libero e al di fuori delle convenzioni stilistiche. Un cinema istintivo dal significato criptico che ammalia e confonde.
A questo proposito Godard non esita a paragonare i suoi film alla musica jazz: spontanea e frutto di una stretta collaborazione tra artisti che condividono lo stesso gusto per la sperimentazione. Nei suoi film la dimensione narrativa propria al cinema classico, così come il concetto di «personaggio» scompaiono facendo spazio a un universo volutamente provocante che mischia allegramente generi, tecniche e discipline (musica, video art, pittura, sociologia e chi più ne ha più ne metta).
Il suo cinema non lascia spazio a nessun copione preesistente o a dialoghi prestabiliti ma predilige piuttosto mosaici di frammenti visivi che si incontrano attraverso linee plastiche e sonore che aleggiano nell’aria come lucciole. A differenza del cinema classico, non è più il regista ma lo spettatore a dare senso all’immagine basandosi sulla sua storia personale, sulle emozioni scaturite dalla visione dell’opera stessa. Immagini e suoni diventano autonomi e si impossessano della mente dello spettatore trasportandolo in un mondo dove tutto è permesso, irriverente e artisticamente sovversivo. Lo scopo di Godard è quello di vedere l’impercettibile, di trasformare il reale attraverso il mezzo cinematografico per rivelarne l’essenza.
Grazie alla tenacia della nuova direttrice artistica di Visions du réel, Emilie Bujès, che ha deciso di contattare Godard per parlargli del festival, malgrado quest’ultimo provi in generale per questo genere di manifestazioni una malcelata avversione, la splendida città di Nyon ha potuto accogliere tra le sue mura un condensato dell’universo del maestro franco-svizzero. Sentiments, signes, passions ecco il titolo della mostra ospitata fra le mura del suggestivo castello di Nyon che mette letteralmente in scena l’universo artistico di Godard in legame con il suo ultimo film Le livre d’image, Palma d’oro speciale al Festival di Cannes nel 2018.
Godard abita ormai da parecchi anni a Rolle, nella Svizzera romanda (molti lo hanno soprannominato a giusto titolo «l’eremita di Rolle») e Nyon ha rappresentato una tappa importante nel suo percorso di vita. È in effetti nella culturalmente ricca città sul Lemano, famosa per i suoi numerosi festival tra i quali il Paléo, FAR e ovviamente Visions du réel, che Godard ha passato la sua infanzia.
Introdotto da cinque capitoli, che rappresentano ognuno un dito della mano e che ne formano a loro volta un sesto, Le livre d’image intreccia una serie di immagini facenti parte della memoria collettiva legata alla storia del cinema. Sotto forma di poema politico cinematografico, Godard abita queste stesse immagini attraverso la sua voce e dei suoni provenienti dalla lettura di testi o dalla musica. I frammenti che compongono la sua ultima opera sono stravolti, volutamente aggrediti, sovrapposti e saturati attraverso il colore e l’utilizzo del montaggio che diventa, come per tutti i film di Godard, il mezzo per rendere visibili le frontiere anziché nasconderle. La mostra, immaginata dal regista durante i due anni di scambi con la direttrice di Visions du Réel, riprende il découpage del film frammentandone con forza ancora maggiore le differenti parti, sia dal punto di vista sonoro che visivo. Ogni parte è per così dire dilatata per poterne catturare l’essenza.
L’ultimo film di Godard è destrutturato in quaranta loop che funzionano in modo casuale, quaranta schermi che si fanno eco e si nutrono mutualmente. A questa cacofonia controllata di schermi si aggiungono una serie di foto e gli immancabili scaffali Ikea utilizzati dal regista per raccogliere le sue varie influenze. Fabrice Aragno, produttore e amico di Godard che si è occupato della scenografia della mostra, confessa che «gli scaffali sono all’origine di tutti i progetti di Jean-Luc. Quando costruisce un film, costituisce prima di tutto una materia, dei film e dei libri nella maggior parte dei casi, che dispone in seguito, come una sceneggiatura, su degli scaffali: il primo scaffale corrisponde alla prima sequenza, il secondo alla seconda e così via. Con questo dispositivo, il film è praticamente già fatto».
Le cinque parti dell’esposizione, come le cinque parti del film, parlano di temi molto diversi tra loro che si uniscono come per magia: amore, guerra, Medio Oriente, morte, legge e poesia come a volerci ricordare che è proprio nella diversità e nel caos delle cose che si nasconde il senso dell’essere. «Il montaggio permette di vedere le cose e non più di dirle», specifica Godard ed è proprio quello che Sentiments, signes, passions vuole fare: mostrarci l’invisibile attraverso l’immagine, il mistero che si nasconde dietro ogni rappresentazione filmica. Attraverso il susseguirsi di immagini, sequenze e suoni lo spettatore crea nella sua testa un linguaggio nuovo, un’esperienza personale unica. Per nulla pretenziosa o pomposa, la mostra permette agli spettatori di deambulare liberamente nello «spazio del film», di creare le proprie personali associazioni, di godere insomma della libertà creativa che Godard non si è mai negato.