Gli U2 e la forza dell’abitudine

Il nuovo Songs of Experience mostra una band ormai dedita all’autocitazione, eppure ancora in grado di ricreare un poco della magia del passato
/ 29.01.2018
di Benedicta Froelich

Già da molto tempo, nell’ambito del pop-rock internazionale, sembra purtroppo ormai assodata la persistenza di un seccante assioma: quello secondo il quale, una volta raggiunto il successo mondiale e la parossistica ricchezza personale, anche le migliori band musicali finiscano inevitabilmente per perdere il «fuoco sacro» e convertirsi infine al genere più commerciale e mainstream. Ahimè, da diversi anni i celeberrimi (e multimiliardari) U2 sembrano soffrire di tale sindrome; al punto da spingere diversi critici musicali a suggerire che, a questo punto, il gruppo capitanato dal furbissimo Bono Vox farebbe bene a seguire l’esempio dei coetanei R.E.M. e decidersi infine per lo scioglimento dell’ormai quarantennale formazione. Ma il gruppo irlandese sembra, in realtà, non averne la minima intenzione, e anzi, continua a sfornare imperterrito dischi perlopiù poco emozionanti.

Questo nuovo CD, annunciato e atteso ormai da parecchio, rientra in tale categoria – e, fin dal titolo, si presenta come un’ideale prosecuzione del precedente Songs of Innocence (2014), tanto da riprenderne molte delle tematiche cruciali, nonché i principali difetti. Dopo una traccia d’apertura interessante (l’onirica ballata elettronica Love Is All We Have Left), risulta infatti difficile negare la risaputa banalità di pezzi come Love is Bigger Than Anything in its Way, irritante fin dal titolo («l’amore è più grande di qualsiasi cosa si metta sulla sua strada»), o dell’innocuo Ordinary Love (Extraordinary Mix) – il quale, in barba alla dichiarazione tra parentesi, di straordinario non ha proprio nulla; e se la situazione sembra risollevarsi non poco con Lights of Home e la grintosa Get Out of Your Own Way, lo si deve più che altro agli interessanti riff di chitarra dal sapore quasi hard rock intessuti dall’abile The Edge. Un discorso a parte merita American Soul, cavalcata rock nata come «costola» di XXX, brano già inciso dal rapper statunitense Kendrick Lamar: una collaborazione interessante, che tuttavia non riesce davvero a emozionare fino in fondo, nonostante la presenza dell’ennesimo recitativo «socialmente impegnato» propinatoci da Bono e compagni.

Sfortunatamente, come accade ormai da tempo con gli album degli U2, anche Songs of Experience presenta troppi brani, per così dire, senza infamia e senza lode – niente più che semplici «fillers», o riempitivi: esercizi easy listening dal gusto pseudo-romantico come You’re the Best Thing About Me, o tendenti all’esistenzialismo d’accatto – come nel caso del mediocre The Showman (Little More Better) o del ritmato ma insipido rock di The Blackout – non lasceranno alcuna traccia nella memoria collettiva, né verranno, probabilmente, mai eseguiti dal vivo; per contro, però, la band può ancora ricorrere al cosiddetto «effetto nostalgia», che garantisce di salvare, almeno in parte, la tracklist di questo disco. Ecco quindi che uno dei brani migliori è senz’altro 13 (There is a Light), il quale non è che un riferimento a Song for Someone, pezzo già presente in Songs of Innocence, con il quale condivide il medesimo ritornello.

E non solo: autocitazioni meno dichiarate, ma comunque evidenti, permeano pezzi come Red Flag Day (che potrebbe passare per un’outtake di War o di un altro album tipicamente anni 80 degli U2), mentre Book of Your Heart e Summer of Love richiamano da vicino le sonorità di Achtung Baby – di fatto, il primo album a mostrare la virata della band da uno stile rock più intimista e cantautorale verso una sorta di «hard pop» tipicamente anni 90, peraltro non apprezzato da tutti; e seppure l’effetto déjà-vu sia quasi risibile, farà senz’altro contenti i più nostalgici tra i fan del gruppo. Anche perché bisogna dire che, perfino nelle tracce meno originali, è ancora possibile, a tratti, riscontrare momenti di perfezione lirica che richiamano gli U2 «rivoluzionari e arrabbiati» di un tempo – come accade con The Little Things That Give You Away («sometimes the end is not coming / the end is here»); in tal senso, il caso più interessante è certo il toccante Landlady, brano dal sapore autobiografico e di argomento relativamente atipico (in fondo, dà ancora sollievo constatare come, almeno saltuariamente, la band sia in grado di uscire dal seminato delle classiche storie d’amore a due).

In definitiva, ciò che Songs of Experience sembra dimostrare una volta di più all’ascoltatore è che l’hubris degli U2 non accenna, ahimè, ad attenuarsi: prova ne è il fatto che questo disco avrebbe più che beneficiato dell’eliminazione di qualche traccia di troppo, operazione tuttavia frenata dalla superbia artistica di Bono e dei suoi. Eppure, è altrettanto innegabile come, qua e là nel CD, si ritrovino ancora sprazzi dell’antica maestria di una band che, per una manciata di anni, ha incarnato quanto di meglio il rock anglosassone potesse offrire; ed è proprio in questo strano, tragico contrasto, che risiede il dramma attuale non solo degli U2, ma di molte altre formazioni dell’attuale scena musicale.