Era nato a Kiev, in una famiglia di origini polacche. Entrambi i genitori erano danzatori, così come lo sarebbero stati lui e sua sorella Bronislava. Anche il fratello Stanislav, probabilmente, avrebbe avuto un uguale destino se un fatale – e tragicamente simbolico – incidente non ne avesse segnato lo sviluppo psichico (precipitato in tenera età dalla finestra del terzo piano, si risvegliò da un coma di tre giorni irrimediabilmente compromesso).
«Il tema della follia è un confine lungo il quale Nižinskij si muove non solo nella scrittura del Diario, ma anche nella sua precedente vita artistica»
Figlio quindi di girovaghi che percorrevano la Russia imperiale di teatro in teatro, per tutti egli fu presto «il Dio della danza», grazie alle sue capacità fuori dall’ordinario. Attorno al suo nome, indissolubilmente legato alla compagnia dei Ballets Russes del geniale impresario Sergej P. Djagilev, da sempre aleggia il bagliore della leggenda, poiché sfortunatamente (e stranamente) non resta pellicola che ne immortali la danza.
Molto è stato scritto di lui e a più riprese: la moglie Romola de Pulszky negli anni ’30 e ’50 gli dedicò due biografie, di cui una introdotta da una nota di Paul Claudel; la sorella, nelle sue bellissime memorie, ne descrive l’infanzia comune così come la reciproca intesa artistica; vi sono anche i ricordi di chi collaborò con lui, come Tamara Karsavina o Igor Stravinsky; e poi gli studiosi: da Françoise Reiss a Vera Krasovskaya, da Peter Ostwald a Lucy Moore. Non da ultimo esiste un celebre e doloroso diario, le cui traversie editoriali si sono protratte fino agli anni ’90.
Ciò nonostante, quando ci si avvicina alla figura di Vaclav F. Nižinskij (1889-1950) si ha la sensazione di non poterla mai afferrare, come se questa fosse quella di un fantasma. Forse perché chi è stato toccato dalla follia – molti certamente lo sapranno: impazzì irreversibilmente nel 1919, mentre soggiornava in Svizzera con moglie e figlia in attesa che la guerra finisse – è destinato a vivere in perenne esilio, come separato dalla vita alla radice. Oggi però, a distanza di anni dalla sua prima uscita per la casa editrice L’Epos (2008), torna felicemente nelle librerie un importante contributo a lui dedicato: Vaclav Nižinskij. La biografia (Lindau, 2022), del critico torinese Sergio Trombetta. Libro appassionante, estremamente accurato e ben scritto, esso è fra i pochi di un autore di lingua italiana integralmente dedicato all’argomento.
Come in altri profili (fanno eccezione il monumentale Vaslav Nijinsky: A Leap into Madness del sopraccitato Ostwald e qualche altro lavoro, come il ben più recente Il corpo geniale di Liliana Dell’Osso e Daniela Toschi) Trombetta, da specialista di danza quale è, da un punto di vista cronologico dedica comprensibilmente poche – ma puntuali e significative – pagine agli anni di malattia del ballerino per concentrarsi invece sulla sua folgorante e breve carriera. Eppure, fin dalla nota introduttiva mette giustamente in guardia il lettore premettendo che «il tema della follia (…) è un confine lungo il quale Nižinskij si muove non solo nella scrittura del Diario, ma anche nella sua precedente vita artistica».
Infatti, per Trombetta, è attraverso l’intessersi di questa fra danza, storia personale e scrittura che Nižinskij si fa profeta mandando «infiniti segnali» al futuro (e come non pensare, qui, a quei «segnali fra le fiamme» descritti dal folle Artaud ne Il teatro e il suo doppio, quando paragona l’immagine del condannato al rogo a quella dell’artista?). Imponendo sulla scena, dopo «un secolo di incontrastato regno della ballerina», «un modello di maschio assolutamente inedito nei teatri di danza» Nižinskij annuncia una poetica dell’androginia, nella quale virilità e femminile si mescolano confondendosi; attraverso l’uso di posture basse, asimmetriche, attinge al folclore, rompendo con l’ideale stereotipato di grazia che permea il mondo del balletto; utilizzando la fissità – si pensi alla sua ultima esibizione, quando, «in uno stato d’animo teso e delirante», sfidò il pubblico di Saint-Moritz standosene fermo per un tempo interminabile – scopre «il livello zero della danza» con enorme anticipo sui tempi.
Forse oggi certe caratteristiche potrebbero sembrare scontate. «Quante volte», scrive Trombetta, «abbiamo assistito a questo tipo di provocazione. Quante volte abbiamo, per esempio, visto un danzatore di Pina Bausch arrivare davanti al pubblico e interrogarlo in silenzio, fermo, con lo sguardo? (…) Ma se si pensa che questo accadeva nel 1919, nella sala di un hotel (...), allora le cose cambiano». In Nižinskij si manifestano aspetti che saranno fondanti per pratiche estreme come il butoh giapponese o la body art, ma pure per fenomeni pop quali Michael Jackson e Freddie Mercury. Non da ultimo – e maggiormente di questi tempi – toccano le sue considerazioni sulla guerra e il commercio, così come quelle sui problemi ambientali: nel rileggere le torrenziali pagine del diario non si può restare indifferenti ai suoi disperati appelli alla pace, alla cura per il mondo in cui viviamo.
Lettura che ci conduce in un’epoca di straordinario fermento culturale e di rivolgimenti che molto possono dirci dell’oggi, Vaclav Nižinskij. La biografia è un libro riccamente documentato, che ha il pregio di avere spessore letterario senza mai cedere al romanzesco. Al suo ritorno sugli scaffali dopo lunga assenza – chi qui scrive, a suo tempo, si procurò faticosamente la prima edizione attraverso l’usato – va quindi data la meritata attenzione.
Bibliografia
Sergio Trombetta, Vaclav Nižinskij, Edizioni Lindau, Milano, 2022.