«In questo paese nessuno dei politicamente importanti, pericolosi per la democrazia, autorevoli, notabili fascisti amici di Hitler venne fucilato come traditore della patria e nessuno dei diciassette traditori della patria fucilati era un politicamente importante, autorevole, notabile fascista ed amico di Hitler». Sta tutto in queste poche righe, un sarcastico aforisma costruito con grande sapienza linguistica (è un serpente che si morde la coda), il cuore del messaggio affidato da Niklaus Meienberg alla sua opera più celebre, Die Erschiessung des Landesverräters Ernst S., che appare oggi in italiano a quasi cinquant’anni dalla prima pubblicazione uscita a Darmstadt nel 1977.
Curiosamente, la versione letteraria del reportage a cui Meienberg aveva lavorato l’anno precedente assieme al regista Richard Dindo non riporta più, nel titolo, la data del misfatto: il 10 novembre 1942, giorno in cui Ernst Schrämli, nato a San Gallo nel 1919 in una famiglia di umili condizioni, fu fucilato da un plotone di esecuzione dell’esercito svizzero per avere passato a spie naziste cinque granate e alcune informazioni militari del tutto irrilevanti. Attratto dalla figura tormentata eppure sostanzialmente innocua del giovane Schrämli, Meienberg ha voluto rendergli giustizia per mezzo della letteratura e, attraverso di essa, allargare lo sguardo alle storture politiche, giudiziarie e morali di un intero sistema sociale: «Ernst S. non è una curiosità. Egli non è neppure un oggetto d’antiquariato. Egli è la cartina di tornasole: costringe la società a scoprire le carte in tavola mettendone allo scoperto le strutture».
Egli stesso un emarginato alla perenne ricerca del proprio posto nel mondo, fino al suicidio che ne troncò anzitempo l’esistenza all’età di soli 53 anni, l’autore vedeva nel protagonista della sua storia l’alter ego perfetto di una realizzazione mancata, in un contesto politico e sociale che non era cambiato molto tra gli anni Quaranta e gli anni Settanta, cioè tra la vita di Ernst e quella, in parte simile, di Niklaus: «Egli voleva, anche se con la prudenza necessaria, godersi la vita. Questo, quando non si apparteneva a un ceto privilegiato e non si aveva denaro, non era permesso. Egli non voleva farsi mettere i piedi in testa. Ciò appariva sospetto. Si comincia con la masturbazione, si finisce col tradimento della patria. Come intermezzo, il rifiuto di lasciarsi sfruttare in fabbrica e il desiderio di girovagare».
Nella sua lucida e intelligente prefazione Francesco Lepori porta in superficie la principale caratteristica stilistica del giornalista-narratore, il puntiglio scientifico tradotto in una forma «ostentatamente documentale»: è infatti dall’accostamento puro e semplice di testimonianze e incarti processuali che nasce, con pochi connettivi tra un documento e l’altro, la sapiente miscela di Meienberg, autore che si ispira per certi versi al sarcasmo di un Dürrenmatt, ma che è ancora più attento a non lasciarsi trasportare dal gusto della letteratura. È la realtà stessa, sembra suggerire tra le righe, a produrre da sé la beffarda ironia di una storia tragica come quella di Schrämli.
L’interpretazione offerta da Niklaus Meienberg nel suo «processo al processo» è fin troppo chiara: Ernst S. non fu nient’altro che un capro espiatorio, immolato per volontà di un sistema che non era disposto a puntare il dito contro i veri colpevoli, alcune frange della politica svizzera e soprattutto l’industria della armi, che proprio nel 1942 stava facendo grossi affari con la Germania di Hitler. Preso da questo slancio ideologico, che in gran parte si può anche condividere, nella sua difesa partigiana della vittima l’autore sorvola però su un punto cruciale: la responsabilità individuale, quel nodo che – al netto di una decisione folle come quella di fucilare qualcuno per amor di patria – continua a identificare l’essere umano e a tutelarne l’unicità pur nelle sue contraddizioni; e questo nonostante tutte le storture della società e tutte le aberrazioni del sistema economico, che possono purtroppo determinare l’infelice destino di molti, ma che non per questo dovrebbero essere chiamate da sole al banco degli imputati per scelte di libertà compiute comunque da singoli cittadini.
I salotti letterari svizzeri di un tempo: Niklaus Meienberg (a destra), l’editore Daniel Keel (al centro) e Friedrich Dürrenmatt (a sinistra) al Zunfthaus zur Meisen di Zurigo il 5 gennaio del 1986. (Keystone)