Dario Fo se n’è andato con i suoi novant’anni che considerava un’età pazza, in cui poteva permettersi di continuare a scrivere e a dipingere, recitare, urlare, indignarsi, impegnarsi (con i 5 Stelle di Grillo), graffiare, ghignare del proprio tempo, rimpiangere la sua compagna di sempre, Franca Rame che se n’era andata prima di lui, nel 2013: «La sogno tutte le notti, ha i capelli biondi e leggeri», diceva. Per lui, una persona incapace di partecipare alla vita della comunità è un morto che cammina: portandosi dentro questa idea, Dario Fo lavorava e viveva per il teatro. Avrebbe preferito morire sul palcoscenico, invece è morto in una stanza d’ospedale, anche se il medico che l’ha assistito ha detto che ha fatto il giullare fino alla fine, parlando tanto come fosse a teatro, nonostante i problemi respiratori.
Nato nel 1926 a San Giano, in provincia di Varese, a chi gli chiedeva qual era il suo primo ricordo rispondeva alludendo a un episodio infantile in cui si mescolavano il suo sguardo incantato sul mondo e la sua forza fantastica: «Vivevamo sul lago, al confine con la Svizzera. In casa raccontavano che al di là della frontiera le case avevano i tetti di cioccolata. Un giorno andammo e ci dissero che le autorità avevano dato ordine di mettere le tegole perché i bambini avevano avuto tutti il mal di pancia». Ricordava anche, spesso e malvolentieri, la guerra, le bombe che cadevano su Brera, i rifugi nei sotterranei dell’Accademia, dove studiava pittura e scenografia, i morti e i compagni sanguinanti.
Ammise, forse tardivamente, di essersi arruolato volontario nella contraerea di Varese e poi di aver vestito la divisa repubblichina di paracadutista del Battaglione Azzurro di Tradate. Non certo per convinzione, precisò, ma per cercare di imboscarsi come fecero molti suoi coetanei: «Eravamo disertori continui, giovanotti spaventati, disorientati, uomini in fuga, ingaggiati con la truffa, incastrati con la violenza. Buona parte dell’esercito di Salò era composta da gente come noi, senza bandiere, preoccupata di una sola cosa: sopravvivere».
La carriera di Fo è notissima, con tutti i suoi tratti accidentati e i suoi trionfi. La rivista e l’arte del mimo lo attrassero presto, si avvicinò al cabaret moderno del milanese Teatro dei Gobbi, con i suoi tre attori di strepitosa bravura, Alberto Bonucci, Vittorio Caprioli e Franca Valeri. Nella stagione 1952-53 arriva il grande successo al Piccolo di Milano della rivista Il dito nell’occhio, a cui Fo lavora con Franco Parenti e Giustino Durano: lo spilungone dai movimenti snodabili e dal grande naso irritava la borghesia milanese e faceva ridere i giovani. L’anno dopo, una nuova commedia, Sani da legare, inaugura la trafila delle censure politiche subìte con regolarità. È di quegli anni l’incontro con Franca Rame, una specie di «splendente Marilyn Monroe», discendente di una famiglia lombarda di attori e di burattinai: nel 1957 il loro legame artistico sfocia in una compagnia Fo-Rame che di fatto durerà oltre mezzo secolo.
Da allora la tradizione popolare che correva nel sangue di Franca, la frequentazione del repertorio dei guitti, il cabaret, le eredità della commedia dell’arte, le suggestioni dell’avanguardia francese, i trucchi circensi confluiscono in una vena surreale legata a una sensibilità politica che si accresce. È la sperimentazione di soluzioni drammaturgiche giocate tra satira e assurdo, burlesco e pura demenzialità giocosa con titoli già in sé significativi come Chi ruba un piede è fortunato in amore o come Isabella, tre caravelle e un cacciaballe. Sono gli anni del Giamaica, il caffè degli artisti, Fo lavora e si diverte con Emilio Tadini, si intrattiene con Morlotti e Alik Cavaliere, frequenta Strehler, scrive canzoni con Jannacci (Ho visto un re) e con Gaber.
La nuova e più clamorosa censura è quella imposta dalla Rai durante la collaborazione a Canzonissima 1962: il putiferio che ne seguì è rimasto memorabile. Il rifiuto dei circuiti tradizionali che si accompagna a una scelta ideologica più radicale vicina ai gruppi della sinistra extraparlamentare, coincide, nel 1969, con l’esplosione di un autentico capolavoro giullaresco pseudo-medievale: Mistero buffo, dove l’invenzione dialettal-corporale del grammelot scatena le capacità gestuali e recitative del mattatore, che viene preso di mira dalle gerarchie vaticane. Seguono, negli anni Settanta, le commedie politiche, tra queste Morte accidentale di un anarchico, ispirata alla vicenda di Pinelli.
Cambiando, dipingendo, allestendo, viaggiando, sgobbando su testi sempre nuovi che capovolgono i luoghi comuni della storia e li ripresentano trasfigurati e di solito rivissuti dal basso, Fo arriverà a essere l’autore di teatro più rappresentato al mondo (oltre 67 paesi). Nel 1997 l’apoteosi inattesa con il Premio Nobel, quando tutti, in Italia, aspettavano che fosse laureato Mario Luzi. Il riconoscimento al giullare irritò. Se c’è uno «scrittore» su cui hanno concordato in Italia la cultura di destra, quella di centro e quella di sinistra nelle sue varie declinazioni, questo scrittore è stato Dario Fo. Il fatto è che tutto il fronte intellettuale italiano, a 360 gradi, ha concordato nell’ignorarlo. Nessuno, in Italia, lo considerava ad altezza di letteratura, figurarsi ad altezza di Nobel. Da sempre.
I suoi contemporanei (e coetanei) l’hanno semplicemente disconosciuto. Italo Calvino, che si è occupato più di tutti di letteratura popolare e della sua riscrittura, non spreca una sola parola per Dario Fo. E Pasolini? Solo parole di disprezzo, in un testo del 1974: «Quanto all’ex repubblichino Dario Fo, non si può immaginare niente di più brutto dei suoi testi scritti. Della sua audiovisività e dei suoi mille spettatori (sia pure in carne e ossa) non può evidentemente importarmene meno». Scorrendo Franco Fortini, ci si imbatte nel nome del «bravo» Dario Fo accanto a quello del «bravo» Giorgio Gaber: secondo lui andare ad ascoltarli non era meglio che godersi Giochi senza frontiere o L’esorcista.
Lo spilungone, ovviamente, non esitava a farci sopra una sonora risata.