«Sull’acqua, fremono, qua e là, come ultimi rimbalzi del giorno, le reti dei pescatori. Quand’eri bambino li vedevi partire tutte le sere e principiare la quotidiana fatica per procurarsi il pezzo di pane […] nel tuo infantile corruccio, nella tua incomprensibile malinconia, cominciava ad aprirsi come una crepa, a formularsi come una dissonanza, quella crepa che poi s’è allargata, ha diviso e squartato, come una mannaia, tutta la tua esistenza. La mannaia del dolore, proprio e altrui».
A comprendere la vita del conte dimezzato Luchino Visconti, si dedicò nel 1972 Giovanni Testori, drammaturgo e scrittore molto apprezzato dal regista di Rocco e i suoi fratelli. Ne scrisse 54 cartelle dattiloscritte spatolate con la sua prosa di materia viva. Un testo a lungo dato per perduto, che vede ora la luce presso Feltrinelli (Giovanni Testori, Luchino. A cura di Giovanni Agosti), nell’anno in cui si ricorda il centenario della nascita dello scrittore di Novate Milanese.
Le ombre del gran lago, il Lario in cui Visconti crebbe nella materna fastosa villa Erba di Cernobbio, sono l’alfa e l’omega di questo ritratto speciale; formano un «pedale» lombardo che collega le radici di Testori a quelle di Visconti nella comune attesa della «smisurata sera che vi scende da anni e anni e che vi scenderà anche dopo, quando di noi, Luchino, non resterà che qualche memoria, e poi, neppure quella… la vita è crudele; e così la morte».
Testori cerca le ragioni della «chiamata d’un destino diverso», che «quanto più saprà gridare l’amore per la vita, tanto più si mostrerà protetto e patrocinato da lei, “nostra sorella morte corporale”», analizzando le fatiche d’una vita («della fatica s’è fatto un metodo di vita, quasi un gusto, una vendetta»): teatro, opera, balletto, cinema e le interminabili collezioni.
Dai passatempi teatrali sotto l’egida della madre, Donna Carla Erba, alla gestione della scuderia a Trenno, passione equina «che prelude il galoppo estremo del cavallo che giunge alle soglie del precipizio»; dalla masnada di cani che gli sta sempre attorno (il pasto quotidiano è una cerimonia feroce degna di un «principe del passato che avesse sbagliato tempo, costume e basamento»), all’horror vacui della villa sulla via Salaria a Roma e della Colombaia a Ischia, riempite di obelischi, uova, «vetri dipinti che coprono la tappezzeria rosso sangue della camera, fotografie che mangiano ogni millimetro della stanza-guardaroba, vasi e opaline che se ne stanno in file lungo tutto il bordo della vasca da bagno». «È la poetica di far il pieno in modo che lo spazio risulti così stipato da trasformarsi in immagine ribaltata del vuoto».
Testori non si dilunga sulle contraddizioni di Visconti (la dialettica della sua vita): «Luchino conte e Luchino vicinissimo ai comunisti; Luchino alle feste dei nobili (e nobilazzi!) e Luchino davanti alla salma di Togliatti» – per chiarimenti su ogni aspetto del suo collezionismo, sui riflessi di questo sulla sua opera, fino alle più minute congetture biografiche ci pensano le note del curatore, Giovanni Agosti: le 85 pagine del testo sono seguite da 234 pagine di erudizione bio-bibliografica nelle quali spesso si perde il punto di partenza, assorbiti dalla dottrina dello scoliasta che vi ha atteso con tanto scrupolo.
Non mancano aspetti meno gradevoli: le celebri rabbie, («il suo bisogno di violenza dimostrata e dimostrante stanno, non dalla parte della sicurezza, bensì da quella dell’abisso»), lo sperpero pecuniario («pur di disfarsene, pur di arrivare a non averne, li getta e li sperpera con una sorta di trionfante volontà d’arrivare allo zero»); il turpiloquio quando «con la sua voce rabbiosa e roca urla, getta e vomita oscenità e bestemmie per le strade […] di Roma». «Cosa ci sia di oscuramente inaccettabile nel suo blasone di conte», si domanda Testori rispondendo: «qualcosa di fangoso, qualcosa di ruttante e di maialesco si sprigiona allora in lui come se, sotto la ludica corazza rinascimentale, emergesse di colpo lo stomaco, il ventre e il sottoventre d’un cavernicolo o d’uno scalpellino dei tempi in cui i Maestri, appunto, comacini scalpellavano pro domo altrui».
Decisiva è la lettura di Testori della poetica del grande regista del Gattopardo, della Caduta degli Dei, di Ludwig: «Trovo impropria la collocazione in esclusiva della poetica di Luchino dentro i termini del decadentismo. Che, in lui, ci sia anche la compartecipazione morale, fisica, psichica e perfino psicofisicomusicale a qualcosa che sta finendo, ai bagliori crepuscolari, alle crepuscolari dorature, alla ricchissima e perfida erosione d’una classe arrivata alla fine dei propri giorni, nessuno lo vuole negare; e neppure che questa compartecipazione formi uno dei fascini più profondi e, come dire, più lacustramente affondati (e capovolti, come […] le già citate striature delle luci comasche e cernobbiane) […] fascino che acquista la sua grandezza, il suo valore, le sue timbrature e il suo strazio proprio dalla coscienza storica e morale con cui quel tramonto si dilata, celebra il proprio requiem e la propria notte».
Villa Erba a Cernobbio. (Wikipedia)