Sin dai suoi esordi, Antonin Artaud (Marsiglia, 1896-Ivry-sur-Seine, 1948) diede molta importanza alle lettere; fra le sue prime opere spicca infatti la celebre Corrispondenza con Jacques Rivière, dove, ancora giovane ma già minato da ciò che definiva una «spaventosa malattia dello spirito», si rivolgeva al direttore della «Nouvelle Revue Française» proponendo la pubblicazione di alcuni testi.
Rivière, che rifiutò cortesemente le poesie, volle comunque conoscerlo perché interessato alla sua insolita personalità. Da questi incontri nacque uno scambio epistolare nel quale Artaud, con fatica e sofferenza, metteva in luce un dolore profondo, che lo condannava a «una inapplicazione alla vita». Rivière realizzò allora quanto il suo interlocutore, nel raccontarsi crudamente, avesse straordinarie doti, che sembravano contrastare coi suoi acerbi tentativi letterari, e ventilò la possibilità di pubblicare le lettere.
Quindi, nel settembre del 1924, con l’apparizione della suddetta corrispondenza sulle pagine della «N.R.F», è sancito l’ingresso di Artaud nel mondo letterario francese (sino a quel momento aveva collaborato con alcune riviste e lavorato per il Théâtre de l’Atelier di Charles Dullin).
Quanto seguirà è cosa nota. Da tempo dipendente dagli oppiacei e segnato da violenti crolli nervosi, dopo l’adesione al surrealismo (col quale poi ruppe), nel 1926 Artaud fonda il Théâtre Alfred Jarry e firma alcuni allestimenti da Vitrac, Strindberg e Claudel; al contempo si dedica al cinema e alla letteratura: interpreta numerosi ruoli e, assieme ai brani poetici e alle prose, redige i testi che formano il fondamentale Il teatro e il suo doppio (1938).
Successivamente, coi riscontri negativi alla messa in scena de I Cenci nel 1935 (sua unica pièce), inizia la fase errabonda della sua vita: il viaggio in Messico e la partecipazione al rito del peyote con gli indios della Sierra Tarahumara; gli spostamenti prima in Belgio e poi in Irlanda, dove sarà arrestato perché in stato confusionale; il rimpatrio forzato e dal 1937 nove anni nei manicomi di Le Havre, Sotteville-lès-Rouen, Saint-Anne, Ville-Évrard, Rodez, Ivry.
A settant’anni dalla morte – e, quindi, con lo scadere dei diritti d’autore sull’opera – Adelphi, una delle massime autorità in Italia per quel che riguarda le versioni artaudiane, ha finalmente proposto una scelta ragionata di lettere dell’ultimo periodo di vita dell’attore-scrittore: Scritti di Rodez (1943-1946), a cura di Rolando Damiani.
L’iniziativa va a colmare, anche se in modo inevitabilmente parziale, una lacuna poiché ad oggi, di questa fase, il lettore italofono dispone di un materiale frammentario: ad eccezione della eccellente edizione di Succubi e supplizi (Adelphi, 2004) sono reperibili brani unicamente in Al paese dei Tarahumara e altri scritti (Adelphi, 1966), in Alice in manicomio. Lettere e traduzioni da Rodez (Stampa Alternativa, 2008) e in alcune pubblicazioni sparse. Pertanto Scritti di Rodez è la più consistente antologia in lingua italiana dedicata agli anni in cui Artaud passò alle cure del dott. Gaston Ferdière, direttore dell’istituto di Rodez, amico dei surrealisti, assertore dell’arteterapia così come dell’elettroshock.
Al di là delle facili demonizzazioni – senza nulla togliere all’evidenza degli effetti collaterali di quella pratica violenta che è la «terapia per convulsioni elettriche» – il ruolo di Ferdière fu decisivo nella ripresa dallo stato penoso in cui Artaud versava al momento del suo ingresso in clinica; scheletrico e malconcio, non scriveva da anni e se non fosse stato per l’amico poeta Robert Desnos, che nel ’43 lo fece trasferire da Ville-Évrard a Rodez, e per sensibilità di Ferdière, che lo coinvolse proponendogli traduzioni e spunti, probabilmente non avrebbe più scritto (non si dimentichi che, all’epoca di Sainte-Anne, un giovane Jacques Lacan lo aveva visitato escludendo qualsiasi possibilità di ripresa).
«Si parla meglio nelle lettere che nei libri», sostiene Artaud in una missiva da Rodez all’amico Jean Paulhan; ed effettivamente in queste pagine, rivolte ora a Ferdière, ora ad André Gide, a Roger Blin o a Jean Dubuffet, così come agli psichiatri e ai familiari, la sua voce emerge con una forza che è «il grido stesso della vita» – non sono solo l’arte e la letteratura a essere in gioco in questa dolorosa epopea, ma qualcosa che va ben oltre: qualcosa di nascosto nel corpo, che «l’anima non saprebbe vedere senza esplodere».
È dunque da una deflagrazione che si consuma di là dai limiti del dicibile – nei gorghi della schizofrenia – che la voce di Artaud, tuttora, raggiunge il lettore come un grido di allarme: un grido che si scaglia contro il potere occulto dei demoni che lo affliggono nel fisico e contro un mondo in cui non hanno posto l’autentica poesia e il teatro.
«La cosa veramente diabolica (...) della nostra epoca», aveva scritto ne Il teatro e il suo doppio, «è l’attardarsi sulle forme artistiche, invece di sentirsi come condannati al rogo che facciano segni attraverso le fiamme». Tragicamente fedele a se stesso, Artaud non cessa di gesticolare nemmeno fra queste pagine.