Bibliografia
Pene d’amore di una gatta inglese e altri racconti felini, Elliot edizioni, pp. 125, euro 13,50.

A bon chat, bon rat, incisione di Jean Ignace Isidore Gérard, detto Grandville (Pinterest)


Gatti loquaci e gatti che non parlano

Un’antologia di racconti dedicati al più amato dei felini
/ 24.04.2017
di Giovanni Fattorini

Non dispongo di dati certi, ma mi piace credere che l’animale di cui si registra la più numerosa e significativa presenza in ambito letterario sia il non assoggettabile gatto domestico. E penso che le opere narrative – romanzi e racconti, in prosa o in versi – nelle quali il gatto domestico ha il ruolo di protagonista o coprotagonista si possano schematicamente dividere in due gruppi: quelle in cui l’elegante felino comunica attraverso un linguaggio propriamente gattesco (mente e linguaggio non sono prerogative esclusive della specie homo sapiens: in buona parte gli animali dispongono infatti di strutture cognitive e sistemi di comunicazione specie-specifici complessi), e quelle in cui lo fa servendosi principalmente del linguaggio verbale degli umani.

Gli autori delle opere che appartengono al primo gruppo descrivono il gatto come dotato di un sistema cognitivo capace di cogliere soltanto alcuni aspetti dell’ambiente in cui vive, e quindi in grado di comunicare (con modalità proprie non solo della specie ma del singolo animale) attraverso un linguaggio tarato – come dicono gli etologi – sulle caratteristiche di tale ambiente.

I gatti presenti nelle opere del secondo gruppo sono in realtà degli esseri umani camuffati da gatti, che elaborano pensieri e formulano giudizi sul mondo non di rado consonanti con quelli dell’autore, il quale, dotando il nobile felino di un ricco vocabolario e dell’attitudine a costruire periodi sintatticamente complessi, lungi dall’esaltarlo come forse vorrebbe, lo snatura e lo oltraggia, a fini talvolta spudoratamente didascalici, che fanno pensare a ciò che afferma William S. Burroughs in un incantevole libretto intitolato Il gatto in noi: «Un gatto non offre servigi, un gatto offre solo se stesso».

Del gruppo di cui ho appena parlato fanno parte diverse opere – che godono di grande considerazione «presso il severo tribunale della critica», come direbbe il gatto Murr – nelle quali pensano e parlano, con maggiore o minore dovizia verbale e perizia stilistica, gatti diventati più o meno famosi nel corso del tempo. Ad esempio la vanitosa e fiera Kiki-la-Doucette, interlocutrice di Toby-chien nei Dialoghi di bestie di Colette; il già menzionato e letteratissimo gatto Murr di E.T. Hoffmann, che inizia la sua biografia citando una frase di Goethe; lo scettico e ironico Senza-nome del romanzo di Natsume Sōseki Io sono un gatto; l’infelice Beauty, protagonista del racconto di Balzac – ispirato ai disegni di Grandville e posto all’inizio del volume recentemente edito da Elliot, Pene d’amore di una gatta inglese e altri racconti felini (traduzione di Massimo De Pascale) – che in forma epistolare ci rende partecipi dell’educazione e delle vicende mondane e sentimentali di una gatta di modeste origini, ma di pelo immacolato, andata sposa al gottoso e compassato lord Puff, gatto d’angora di un pari d’Inghilterra, e poi amante del giovane Brisquet, vivace e gagliardo attaché dell’Ambasciata di Francia, fatto uccidere dal capitano Puck, nipote di Puff e innamorato gelosissimo di Beauty.

Benché s’incontri con Brisquet sulle grondaie, Beauty è una gatta umanizzata che Balzac strumentalizza per satireggiare il moralismo vittoriano e più in generale les hommes civilisés che ipocritamente disconoscono i moti istintuali, le pulsioni profonde, le necessità fisiologiche dei viventi. Ugualmente dimostrativo, a conti fatti, è il racconto di Saki (pseudonimo di H.H. Munro, 1870-1916), di cui è protagonista eponimo Tobermory, un gatto che in soli sette giorni ha imparato a servirsi in modo impeccabile della lingua inglese, e che svelando atti e parole di cui è stato testimone suscita lo sgomento e il panico tra i partecipanti a un tea party.

Saki è crudele e divertente, ma personalmente preferisco quei racconti nei quali i gatti non elaborano concetti, non scodellano opinioni, non fanno pettegolezzi. Per esempio quello di G.H. Powell (1856-1924), in cui viene descritto nei dettagli il combattimento ingaggiato da una gatta persiana, abitualmente egocentrica e indolente, contro un velenosissimo serpente sudamericano che minaccia la padrona di casa; o quello di William Livingston Alden (1837-1908), che indaga il forte legame che si stabilisce tra un gatto randagio e un cercatore d’oro che vive in una misera baracca, e che troverà la morte nel tentativo di salvare il felino dalle fiamme; o quello inquietante e quasi orrorifico di H.P. Lovecraft (1890-1937), ambientato a Ulthar, «città immaginaria» dove è vietato per legge uccidere i gatti.