Se vinci a 11 anni il concorso BBC per giovani musicisti, a 19 diventi il più giovane solista ad aprire i mitici Proms di Londra e alla domanda dei giornalisti rispondi: «Ma non sono un talento», o sei un falso modesto che lambisce l’ipocrisia o sei Benjamin Grosvenor (nella foto). Il trentenne pianista inglese è atteso settimana prossima al LAC come solista nel celeberrimo Concerto di Grieg, accompagnato dall’Orchestra della Svizzera Italiana che Markus Poschner dirige anche nella prima Sinfonia di Shostakovich; e a chi gli chiede oggi se dopo altri dieci anni di carriera superba abbia cambiato idea, conferma la tesi formulata da teenager, seppur approfondendola: «Non sono un talento se con questa parola definiamo il bambino prodigio che siede alla tastiera e come per magia crea suoni perfetti, anzi: mia madre, pianista autodidatta, provò ad avviarmi allo strumento quando avevo cinque anni, ma ero a dir poco riluttante. Iniziai seriamente solo quando, a scuola, dei miei amici iniziarono a suonare ed io, per non essere da meno, incominciai a mia volta». Nessuna folgorazione improvvisa, nessuna via di Damasco avente come pietra miliare l’ascolto di un grande interprete o un capolavoro di Beethoven, «anzi devo confessare di non avere ricordi giovanili; tutto quello che so è quanto mi racconta mamma, mi devo fidare della sua parola» sorride; ed è questa: «Mi ha spiegato che iniziò a intravvedere in me un barlume di musicalità quando mi sentì suonare un valzer di Chopin con l’espressività di un diciottenne; diciamo che non sono stato un enfant prodige, ma ho avuto in dono una buona e precoce musicalità. Io stesso, ascoltando un Notturno di Chopin eseguito a dieci anni e registrato da mamma, ho apprezzato l’asincronia della mano sinistra che anticipava la mano destra, un effetto cui in passato ricorrevano grandi pianisti come Schnabel o Cortot, che all’epoca non conoscevo: mi era venuto naturale».
Con lo stesso candore confessa che, ormai già avviato nella carriera internazionale, mentre studiava a casa (dove ha condiviso la camera con un fratello affetto dalla sindrome di Down) «la mamma mi faceva dei commenti; la mia prima reazione era quasi sempre di uno scetticismo quasi offeso, le rispondevo immancabilmente: “Ma che dici?”, poi ci pensavo, provavo a fare come diceva lei e quasi sempre aveva ragione… Lo ammetto, un po’ mi scocciava…» Oggi i confronti sono soprattutto con i direttori e le orchestre con cui si trova a collaborare. «Mi piace molto suonare con l’orchestra, ancor più se ha un’impronta, una dimensione e uno spirito di tipo cameristico. Già affrontando i grandi concerti, come lo è quello di Grieg, il solista non può stare tutto curvo sulla tastiera, con la testa reclina sui tasti, magari con i capelli a cadergli sul volto e sugli occhi, impedendogli di guardarsi attorno, e lasciare tutto il lavoro di concertazione al direttore: dalla serie “io vado per la mia strada, tu direttore e voi orchestrali seguitemi e fate come potete”. Il bello di preparare questi concerti è il confronto, è il costruire assieme un’interpretazione, un’idea unitaria del brano e un comune cesello dei dettagli; e se i professori di un’orchestra sono abituati ad ascoltarsi con l’intensità e la continuità che c’è tra i membri di un quartetto o di un altro ensemble da camera, allora è fantastico».
Altra cosa di cui è contento «è l’essere cresciuto e vivere in quest’epoca; non voglio fare i soliti discorsi sul pubblico, sull’attenzione alla classica, sui bei tempi passati, ma piuttosto sottolineare un punto per me cruciale: la vita del concertista era solistica anche nel senso di una distanza, ma potrei dire mancanza, di rapporti costanti, di frequentazioni di amici, parenti, conoscenti. Oggi c’è ancora la routine aereo-albergo-teatro, ma ci basta schiacciare uno schermo per parlare o vedere chi vogliamo, e questo per chi è sempre in giro fa tutta la differenza del mondo».
Altro aspetto in cui Grosvenor esce dai cliché riguarda l’ascolto di sé: «Non pochi interpreti dicono che non amano ascoltare i propri concerti; anch’io, se avessi potuto scegliere tra l’esistenza o meno delle registrazioni, avrei preferito non averle avute a disposizioni – parlo ovviamente solo delle mie registrazioni. Però, dal momento che esistono, mi ascolto, soprattutto le registrazioni dal vivo, perché uscire dall’emozione del momento e ascoltarsi in modo non oggettivo, ma più distaccato, come fa il pubblico, è istruttivo, a tratti anche rivelatorio». Come l’OSI è assai attiva nell’ambito didattico e divulgativo, con spettacoli e concerti appositamente pensati per giovani, scuole e famiglie, così anche Grosvenor ama cercare altre vie per comunicare alla gente la bellezza della musica: «In Inghilterra mi capita spesso che prima o il giorno dopo un concerto qualche scuola mi chieda di andare a incontrare gli studenti; sono momenti sempre belli, di grande apertura, credo che servano per creare un nuovo pubblico allo stesso modo di suonare bene un concerto».